venerdì 15 aprile 2022

Venti giorni di guerra col tenente Cesare Torra (24 maggio-12 giugno 1915)

Anche stavolta, nel raccontarvi la vicenda di un giovane soldato, vogliamo partire da alcuni oggetti: in questo caso, si tratta di alcune medaglie e dei relativi diplomi di concessione. Si tratta di oggetti e documenti molto comuni, assai poco valorizzati a livello collezionistico, ma comunque dotati di un enorme potere: quello di riaprire una piccola finestra sul passato, risvegliando il ricordo di chi ne fu, per scelta o suo malgrado, protagonista.

***

Ritratto del ten. Torra da "L'Illustrazione Italiana", 1915.

Il 28 luglio 1889, nella bella cittadina piemontese di Valenza, i signori Giuseppe Torra e Maria Pasetti divennero genitori di un bimbo dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, cui imposero il nome di Giuseppe. Prima di lui avevano già avuto un altro figlio maschio, Francesco Carlo, nato nel 1884.

Croce al Merito di Guerra e relativo diploma concessi al ten. Cesare Torra (coll. dell'A.).

 Giuseppe Torra crebbe a Valenza, ove frequentò le scuole e poi l'istituto tecnico, licenziandosi quale ragioniere

Di seguito, forse indeciso sulla prosecuzione della propria carriera, il nostro decise di chiedere l'arruolamento volontario nel Regio Esercito, in anticipo rispetto alla propria classe di leva. Come già visto in altri contributi di questo blog (si veda in particolare l'articolo relativo al s.ten. Pier Felice Vittone), l'istituto del volontariato ordinario era riservato ai diciottenni, celibi e senza figli, che godessero di buona forma fisica, fossero alfabetizzati e avessero il consenso del padre (la maggiore età si raggiungeva al compimento dei ventuno anni). Esso consentiva, in particolare, di scegliere liberamente il corpo nel quale si sarebbe prestato il servizio militare. In tal modo, si potevano assecondare le proprie personali inclinazioni o tradizioni famigliari, ma anche conciliare il servizio militare con esigenze di studio o lavoro, scegliendo un reparto di stanza in città vicine alla propria.

Cartolina reggimentale del 37° fanteria di inizio Novecento.

Tale fu, dunque, la decisione di Giuseppe Torra che, il 31 gennaio 1909, venne dunque arruolato quale volontario nel 6° reggimento Bersaglieri ed iscritto ai corsi per allievo ufficiale. Nel giro di un mese, tuttavia, Torra cadde ammalato (o vittima di qualche infortunio), tanto da dover essere inviato in licenza straordinaria di convalescenza, per la durata di un anno. Difficilmente possiamo immaginarci lo scorno che dovette provare questo giovane, così motivato, nel ritornare a casa in licenza. Trascorso il 1909 in attesa del rientro in servizio, Giuseppe Torra tornò a vestire le stellette nel gennaio del 1910, stavolta inquadrato nel 2° reggimento Bersaglieri. Era però destino che egli non dovesse essere un fante piumato: appena un mese dopo, Torra fu infatti trasferito al 50° reggimento Fanteria della Brigata "Parma", di stanza a Torino.

Promosso caporale a fine febbraio e poi sergente nel mese di maggio, Torra terminò i corsi da allievo ufficiale il 30 settembre 1910, venendo così inviato in licenza, in attesa della nomina a sottotenente.

Due mesi dopo, il 30 novembre, Giuseppe Torra fu dunque promosso al grado di sottotenente ed assegnato per il servizio di prima nomina al 37° reggimento Fanteria della Brigata "Ravenna": la destinazione presso tale glorioso reparto dovette particolarmente soddisfare il giovane ufficiale, giacché esso era di stanza presso la Cittadella di Alessandria, distante solo una quindicina di chilometri da Valenza.

Così, nella vita di caserma, Giuseppe Torra trascorse l'anno successivo, sino all'autunno del 1911, quando il Regno d'Italia dichiarò guerra all'Impero Ottomano. In tale contesto, il 37° regg. Fanteria fu mobilitato nella seconda fase della campagna italo-turca, prendendo parte alle operazioni del 1912. In particolare, il reggimento combattè nella battaglia di Zanzur, a metà del giugno 1912. Torra combatté dunque in terra d'Africa, al seguito del proprio reparto.

Cartolina commemorativa del 37° fanteria, dedicata alle campagne coloniali cui il reparto prese parte.

Terminata la Guerra italo-turca, dopo il trattato di Losanna del 18 ottobre 1912, il 37° reggimento fu rimpatriato, e con esso anche Giuseppe Torra. Questi, nel frattempo, aveva maturato un'importante decisione per la sua vita: la richiesta, cioè, del passaggio da ufficiale di complemento a ufficiale in SAP (Servizio Attivo Permanente). Inoltre, a far data dal 1° aprile 1912, era stato anche promosso al grado di tenente. Torra, così, a soli ventitrè anni entrava definitivamente a far parte dei ranghi del Regio Esercito, già veterano di una guerra coloniale e con la prospettiva di una brillante carriera. Nel giro di soli due anni, gli eventi avrebbero tuttavia preso un corso inaspettato.

Cartolina reggimentale del 37° fanteria postbellica, che riporta tra le glorie del reggimento anche i combattimenti di Plava del 12 giugno 1915.

Senza attardarci su cose già note, dopo l'inizio della "Guerra europea" nell'estate del 1914, il Regno d'Italia s'incamminò - dopo la scelta della neutralità - sulla via dell'intervento in guerra, provvedendo gradualmente a porre le proprie forze armate sul piede di guerra.
Le ostilità con l'Austria-Ungheria iniziarono nel fatidico giorno del 24 maggio 1915.
A tale data, la Brigata "Ravenna" si trovava - già dal mese di aprile - dislocata nella zona di Cividale, pronta a muovere sul confine.
Il 24 maggio, posta alla dipendenza della 3^ Divisione di fanteria, la "Ravenna" passò il confine e, per le dorsali di Scrio, Claunico e Gradno, raggiunge il costone di Verhovlie (o Vrhovlje, in sloveno), senza incontrare resistenza.
L’8 giugno riceve l’ordine di passare l’Isonzo presso la località di Plava ed attaccare il costone Kuk - Vodice - M. Santo, munitissimo di posizioni austro-ungheresi, a difesa da settentrione della città di Gorizia.
Il passaggio del fiume ha inizio il giorno 9 giugno per opera di un nucleo di duecento volontari del 38° fanteria i quali, passati sull’altra sponda, occupano il caseggiato di Plava, spingono pattuglie sulle pendici di Quota 383, ed iniziano l’attacco per la conquista di tali importanti posizioni. 
Il giorno 11 giugno, i battaglioni I e II/38°, occupata in un primo tempo la Quota 383 e perdutala in seguito ad un contrattacco del nemico, riuscirono, con l’aiuto di rincalzi, a stabilirsi sulle pendici della Quota 383.
La situazione dei fanti del 38° era delicatissima, ed a loro sostegno dovettero essere immediatamente inviati rinforzi.
Pertanto, nel corso della giornata, anche il 37° reggimento fanteria passò fortunosamente l'Isonzo, cosicché, al mattino del 12 giugno, tutta la brigata (37° e 38° reggimento) si trovava schierata sulle pendici di Quota 383.
Tra quei soldati, vi era il tenente Cesare Torra; nonostante i suoi poco meno di ventisei anni, Torra non era un ragazzo: era un uomo sotto le armi da sei anni, un ufficiale e reduce di guerra. Tuttavia, l'immagine che ci restituisce la sua fotografia è quella di un giovane che potremmo incontrare per strada, o sul treno, mentre rientra dall'università. Un giovane con tutta la vita davanti.
Le stagioni della storia, le vicende umane impongono a ciascuno di interpretare un certo ruolo nel teatro della vita: e per Cesare Torra, la campana doveva suonare proprio in quel bel giorno d'estate di centosei anni fa.

Nel corso della giornata del 12 giugno, le nostre truppe tentarono di impadronirsi della vetta insanguinata di Quota 383, ma dopo aver subito perdite gravissime, furono costrette, verso sera, a ripiegare sull’abitato di Plava.
Alla sera del 12 giugno, Cesare Torra mancava all'appello: i suoi occhi azzurri si erano spenti, tra il verde del bosco martoriato di Quota 383 e il blu intenso dell'Isonzo che scorre veloce qualche centinaia di metri più in basso.
Un altro tentativo, rinnovato il giorno 13 dal 37° fanteria, fu ancora arrestato dal fuoco nemico. 
In queste cruentissime azioni la brigata "Ravenna" perdette - tra morti e feriti - 52 ufficiali e 1500 uomini di truppa, con un sacrificio veramente tremendo.
Dal punto di vista strategico, l'azione raggiunse tuttavia l’importante risultato di costituire nella zona di Plava una testa di ponte. Essa sarebbe stata una spina nel fianco dello schieramento austro-ungarico fino all'estate del 1917 quando, con l'Undicesima Battaglia dell'Isonzo, il Regio esercito sarebbe riuscito finalmente ad avanzare oltre tali quote insanguinate.

Nel corso dei combattimenti del solo 12 giugno, cadono - oltre a Cesare Torra - anche i seguenti ufficiali:

- capitano Erneso Etolli, da Milano, MAVM;

- capitano Giovanni Gallo, da Torre Maggiore (FG);

- capitano Carlo Ollearo, da San Salvatore Monferrato, MBVM;

- capitano Paolino Ravasi, da Cremona (meglio, da Pietra Marazzi, AL), MBVM;

- capitano Michelangelo Tessitore, da Vercelli, MBVM;

- tenente Giuseppe Benedetto, da Naso (ME), MAVM;

- tenente Cesare Treves, da Casale, MBVM;

- tenente Andrea Tulli, da Verona, MAVM;

- sottotenente Augusto Colombo, da Casale, MAVM;

- sottotenente Giovanni Battista Laguzzi, da Molinella;

- sottotenente Giuseppe Mazzarella, da Frattamaggiore;

- sottotenente Agostino Oddone, da Cisterna.

Alla memoria di Cesare Torra e dei suoi valorosi e sfortunati compagni d'arme, dedichiamo questo articolo.

Medaglia interalleata della Vittoria e relativo diploma, concessi al ten. Torra (coll. dell'A.).
Medaglia comm. della guerra italo-austriaca e relativo diploma, concessi al ten. Torra (coll. dell'A.).

 
A cura di Niccolò F.

BIBLIOGRAFIA
  • L'Esercito italiano nella grande guerra, Vol. II, vari tomi, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1929.
  • La Grande Guerra sulla fronte Giulia, O. Di Brazzano, Ed. Panorama, 2002.
  • Riassunti Storici dei Corpi e Comandi nella guerra 1915 - 1918 , Roma - Libreria dello Stato.

venerdì 28 gennaio 2022

La spedizione Porro del 1886: una sfortunata avventura africana

di Edoardo Visconti
Il Conte Gian Pietro Porro[1], quinto conte di Santa Maria della Bicocca, trova la morte nel 1886, durante la spedizione verso la città di Harar. La nobile famiglia Porro intreccia più volte la sua storia con quella di Como [dove era nato nel 1844, n.d.R.] e dell’Italia schierando tra i suoi membri, patrioti, letterati, scienziati e militari.
Il conte Gian Pietro Porro, in una tavola de L'Illustrazione Italiana.

La spedizione Porro, così definita all’epoca, nasce nella mente del suo organizzatore nel dicembre del 1885 - come ricorda Luigi Zanzi nella commemorazione del 29 gennaio 1888 tenuta ad Induno Olona[2] - quando il Porro è da poco presidente della Società d’Esplorazione Commerciale in Africa[3].

È pensata per raggiungere Harar al fine di incrementare la presenza italiana nel Corno d'Africa e per una migliore conoscenza del potenziale economico della regione. Sembra anche che, sempre in segreto, abbia avuto dal governo italiano l’incarico di sondare il terreno in vista di un’eventuale spedizione militare. Si spiega così la sua determinazione, una volta giunto in Africa, nel proseguire nonostante i molti segnali negativi e gli ostacoli frapposti, dagli inglesi, nella persona del maggiore Frederick Mercer Hunter[4] e derivanti dalla difficile situazione politica determinatasi, al momento, nella regione, molto instabile.

Nei mesi successivi la situazione si fa ancora più caotica ad Harar. Nella sua esaltazione religiosa, l’emiro Abdullahi trasforma le caserme egiziane in moschee e obbliga i sudditi che si rivolgono a lui per ottenere giustizia a cantare versetti sacri pena dure bastonature. Pur essendo al corrente di tutto questo, il comasco conte Gian Pietro Porro, da poco eletto presidente della Società d’Esplorazione Commerciale in Africa, decide di raggiungere Harrar, per quanto sconsigliato al suo arrivo ad Aden, dal console italiano Bienenfeld e dal political assistant Hunter, il quale, oltretutto non ama che europei si immischino negli affari dell’Harrarino, confidando sempre in una occupazione inglese della regione. E nutrendo – e non a torto – forti sospetti sulla spedizione “nella quale predominava – fa notare al Bienenfeld – il militarismo in luogo del negoziante e non poteva capire come questi signori ex ufficiali si siano dati tutti la parola per promuovere una spedizione commerciale”.

Ma Porro, che si sente oltremodo sicuro di sé per aver già affrontato il Gran Chaco e ignora del tutto le macchinazioni dei vari agenti inglesi, francesi, tedeschi, greci, non ascolta ragioni e organizza la spedizione, pur sottostando alle dure condizioni dell’Hunter, di ridurre ad otto i membri europei e di rimandare in Italia i quattro quinti delle armi e delle munizioni. È un vero suicidio. Ma Porro non è soltanto ambizioso e temerario. Come ha sospettato Hunter, la spedizione allestita in apparenza per fini commerciali, ha in realtà lo scopo di studiare il percorso Zeila-Harrar in modo da poter più tardi suggerire agli Alti Comandi italiani la tattica più opportuna per occupare la regione. Allo scopo, Porro ha anche preso contatto, durante il breve scalo a Massaua con il generale Genè, contatto che ovviamente il governo finge di ignorare e di cui non lascerà traccia nei documenti[5].

Harar è la quarta città santa dell'islam e all'epoca importante nodo commerciale, almeno fino alla costruzione della ferrovia Gibuti-Addis Abeba nel 1894, quando perde importanza in favore di Dire Daua (inizialmente Nuova Harar), costruita sul tracciato della ferrovia[6].

Mentre il governo italiano si chiama fuori da un impegno diretto, i circoli coloniali appoggiano il piano di Porro e inviano dei loro rappresentanti con lui. Oltre alla Società milanese di esplorazione erano associate, infatti, a questa importante spedizione la Società Geografica di Roma e la Società Africana di Napoli; vi è inoltre associata una Società commerciale, con capitali raccolti per azioni di 1000 lire[7] l'una a Roma ed a Milano, la quale doveva continuare, in tempi più tranquilli, i commerci già iniziati nella regione di Harar da altre case italiane come Sacconi, Guasconi, Rosa, Pogliani, Bienenfeld ed altre[8].

Nel bilancio del 1886 della locale Società milanese di esplorazione commerciale in Africa, la spedizione nell'Harar figura per L. 40.000[9] delle quali 15.000[10] spese in oggetti di equipaggio e 25.000 consegnate al conte Porro dopo la partenza da Napoli con il piroscafo Domenico Balduino[11].

Tra i membri della spedizione che condividono la sua fine ci sono: Giovanni Battista Licata[12], un naturalista rappresentante la Società Africana di Napoli, Girolamo Gottardi[13], il Conte Carlo Cocastelli di Montiglio[14] rappresentante la Società Geografica Italiana, Umberto Romagnoli[15], veterano delle spedizioni nell’Harar e rappresentante della Compagnia Filonardi, attiva in tutta l'Africa orientale, il dottor Guglielmo Zannini[16], Paolo Bianchi[17] e Giovanni Blandino[18].

La spedizione Porro lascia Napoli il 26 gennaio 1886 e attracca ad Aden ai primi di marzo, in un periodo di grande instabilità. L'Egitto ha appena abbandonato la regione, le città costiere sono sotto il precario, per il momento, controllo britannico, mentre Abdallahi Alì Mohamed Abd El Sashur è l'emiro di Harar e non vede assolutamente di buon occhio la presenza europea nella regione. Le autorità britanniche sono sospettose riguardo le mire del Porro, credendo, in parte a ragione, che l'obiettivo finale della missione sia di natura politica. Hunter avvisa Porro dei pericoli che avrebbe incontrato nel raggiungere Harar, e alla fine acconsente alla spedizione, solo a condizione che riduca la quantità di armi e personale e che accetti di essere scortati da un drappello armato fornito dalle autorità britanniche.

Il 26 marzo la spedizione Porro parte da Zeila e il primo aprile arriva a Somadu, dove si ferma per qualche giorno. Qui i membri della spedizione scrivono lettere indirizzate ai loro circoli e alle loro famiglie. Le lettere sono pubblicate dalle riviste Esploratore e il Bollettino della Società Geografica Italiana, dopo la loro morte.
Luoghi della Spedizione Porro.

Quando la spedizione raggiunge la periferia di Gildessa, l'8 aprile, la città è sotto il controllo dell'emiro le cui truppe hanno, da poco, disarmato un contingente britannico. La sosta è prevista, non è possibile proseguire verso Harar senza l’approvazione dell'emiro. Porro pensa di ingraziarsi l'emiro con una serie di regali e denaro, ma non ha modo di mandarli. Decide, quindi, di accamparsi nelle vicinanze e andare avanti: Romagnoli, che conosce l’ambiente è inviato a Gildessa per valutare la situazione.

Una volta in città, Romagnoli incontra i rappresentanti dell'emiro, coi quali si accorda affinché li accompagnino fino ad Harar. Un piccolo gruppo torna con l’emissario italiano all'accampamento e più tardi nella notte si incontra con Porro, chiedendo di cedere le armi in cambio di un passaggio sicuro. Sembra che un disaccordo su questo punto persuada Harari ad inviare dei rinforzi: prima dell'alba, circa 300 soldati circondano il campo e disarmano la scorta formata da 21 somali e 17 indiani, mentre i rappresentanti dell'emiro continuano ad assicurare a Porro e ai suoi compagni la scorta fino ad Harar.

Il giorno seguente, la spedizione Porro e le forze di Harari partono, effettivamente, per Harar, come pattuito, ma dopo una marcia di poche ore tutti i membri italiani della spedizione sono trucidati, mentre l'interprete, i soldati e i portatori diventano prigionieri.

Al diffondersi di notizie sempre più drammatiche in Italia, i circoli coloniali e le organizzazioni promotrici della spedizione chiedono inutilmente, al Governo italiano, un intervento militare punitivo. La risposta gela gli animi: la spedizione Porro nasce al di fuori dei livelli governativi, cosa non del tutto corretta e onesta; inoltre ogni iniziativa militare avrebbe danneggiato i rapporti con i britannici nella zona.

La notizia del nuovo eccidio, se da una parte fa scrivere ad alcuni giornali tedeschi che ormai è una specialità degli italiani quella di lasciarsi trucidare “da quelle parti”, in Italia fornisce l’occasione ai circoli colonialisti di pretendere immediate rappresaglie e l’occupazione dell’Harrarino. Ma si levano anche molte voci contrarie all’estensione, per vendetta o per calcolo, dei nostri già gravosi impegni in Africa. Sono, ad esempio, le voci di Cairoli, del Di Rudinì, di Pantano. Lo stesso ministro Di Robilant, rispondendo ad una interrogazione dell’on. Braganze, precisa che la spedizione Porro, intrapresa a proprio rischio e pericolo, non può in nessuna maniera impegnare il paese ad allestire un costoso Corpo di spedizione e distrarre l’Italia da problemi e avvenimenti ben più gravi. Dichiarazione che riempie di sdegno i colonialisti, i quali accusarono di tradimento il governo e minacciano di “voler organizzare per sottoscrizione nazionale una spedizione nazionale (privata) per vendicare i massacrati di Gildessa”. 
Ma non si prende alcuna iniziativa, né ufficiale né privata, anche perché Di Robilant dovrebbe chiedere questa volta soddisfazione – e non ha interesse a farlo – agli stessi inglesi, in quanto l’eccidio è avvenuto in una regione ancora controllata da essi e per istigazione di un emiro da essi portato al potere [19].

Le critiche al Governo italiano sono forti e sferzante è la posizione di Civiltà Cattolica:
"Qualche giornale rimprovera al governo Depretis questa strage. Non si può pretendere che la prevedesse. Invece si potrebbe e dovrebbe pretendere che i ministri dicessero il vero. Mancini proclamò che si era inteso coll'Inghilterra, la quale guardava con simpatia le spedizioni italiane in Africa. Ma poi i ministri inglesi dichiararono nella Camera dei Comuni che se il governo italiano era andato a Massaua, l'impresa era tutto a suo rischio e pericolo. Di più i consoli inglesi lungo le coste eritree contrariarono i tentativi di esplorazione del conte Porro, come risulta delle lettere di lui e da quelle del prof. Licata. Questa opposizione tra le dichiarazioni del governo italiano e la realtà dei fatti merita di essere rilevata per conchiudere che se è balorda politica interna del governo, non lo è meno quella estera"[20].
Menelik, all’epoca, negus dello Scioa, approfitta della situazione. Si pone come vendicatore degli Italiani che lo appoggiano sia diplomaticamente sia inviando armi che gli permettono di eliminare l’emiro, inglobando nei suoi domini la regione di Harar. Dopo una decina d’anni quelle armi servono per sconfiggere l’Italia ad Adua e mettere fine, per i successivi quarant’anni, alle pretese italiane sulla regione.

Quello che rimane dei resti dei membri della spedizione torna in Italia nel gennaio del 1887 grazie all’intervento diretto in loco del marchese Gaetano Benzoni e del giornalista Guido Del Valle, sempre lasciando all’oscuro le autorità governative in Italia e in colonia.


Edoardo Visconti

NOTE
[1] Porro Conte Gian Pietro (o Giovanni Pietro). Nacque a Como il 20.11.1844 dal conte Francesco Porro e dalla contessa Chiara Giovio.
Giovinetto, gli istinti militari trovarono ampia occasione a svilupparsi colle tradizioni dell'avo materno, conte Paolo Giovio, soldato dell'epopea Napoleonica e avanzo della campagna di Russia, e si ritemprarono nell'eco, ripercossa in ogni nostra famiglia, delle glorie del nostro riscatto; sicché il 3.2.1860 entrava dei primi nel Collegio Militare di Milano al momento della sua apertura, col n. 6 di matricola.
Nell'ottobre 1862, sostenuti con ottimo risultato gli esami, venne ammesso all'Accademia Militare di Torino, nella quale compì i tre anni, e nel terzo venne promosso sottotenente di cavalleria e assegnato al Reggimento Cavalleggeri d'Alessandria.
Nell'aprile del 1866 lascia la scuola normale di Cavalleria e raggiunse a Saluzzo il suo Reggimento, che si recava sul Mincio per la guerra imminente.
Fece le prime prove di valore nella breve e sfortunata campagna del 1866, e trovatosi nella sgraziata ma gloriosa giornata di Custoza, la sua ferma condotta e il coraggio mostrati nelle brillanti cariche fatte dal suo reggimento gli guadagnarono la menzione onorevole e gli elogi del suo comandante il colonnello Strada, il quale, promosso subito dopo Maggiore Generale, lo volle suo aiutante di campo.
Negli anni successivi, distaccato a Lercara in Sicilia, per combattervi il brigantaggio, si distinse sempre per coraggio, abnegazione e attività instancabile.
Ma la vita militare, quando si riduceva alla monotonia delle guarnigioni, non offriva bastanti attrattive per lo spirito irrequieto e avventuroso del Porro, e nel 1872 chiede le sue dimissioni, lascia il servizio militare e si ritira per poco nella sua villa di Induno presso Varese.
Là egli sogna continuamente imprese difficili e avventurose; e lasciata l'Europa, si reca nell'America del Sud e intraprende un viaggio di esplorazione al Gran Chaco, vasto e poco conosciuto territorio della Confederazione della Plata fra la Bolivia e il Paraguay, facendolo oggetto de' suoi studi e meta di progetti per una possibile colonizzazione italiana.
Il Gran Chaco occupa un'estensione di 840 chilometri di lunghezza per 620 di larghezza.
Vi si trovano pianure incolte, sterminate, immense foreste vergini, ed è abitato qua e là da tribù d'Indiani indipendenti e selvaggi.
Il viaggio durò parecchi mesi, fu ricco pel Porro di avventure, di osservazioni e studi, né scevro di pericoli, tanto che più che il compagno suo si fermò a mezza strada ed egli dové proseguire quasi solo il cammino che si era tracciato.
Ritornato in Italia, sposatosi nel 1873 a una egregia giovane milanese, Giuseppina Rossi, che colla dolcezza degli affetti domestici lo compensava dell'avere abbandonata la vita avventurosa dei viaggi lontani, ridottosi nella sua amena villa di Induno, si diede tutto agli studi, con quella forza di volontà che era una delle caratteristiche della sua indole fortissima.
Frutto di questi studi furono le pubblicazioni: Da Genova al Gran Chaco, note spigliate e interessanti delle sue esplorazioni in quel paese. La battaglia di Legnano, brillante e calda descrizione di quell'episodio glorioso delle nostre storie. Bazaine e le Note sulle Storia militare d'Italia, pubblicato in diversi pregiati volumi, che si leggono col più vivo interesse e sono consultate ed assai apprezzate dagli amanti e cultori di studi militari.
Scriveva assiduamente nella Perseveranza, nella Cronaca Varesina e nel Fanfulla. In questo brioso giornale si firmava col pseudonimo di Melton, nome d'un suo cavallo favorito.
I suoi articoli militari, specialmente quel sulla guerra Turco-Russa, erano letti con molto interesse, e rivelano subito l'uomo di guerra energico e deciso, corredato da forti e severi studi.
Ippolito appassionato, pubblicò parimenti sulla Perseveranza, articoli di sport assai apprezzati.
Ma anche in mezzo agli studi, ai silenzi quieti dei colli ridenti di Varese, sognava continuamente avventurosi viaggi, incogniti pericoli, combattimenti, vittorie.
Sindaco benemerito e benefattore di Induno; ispettore della Società Milanese di Scherma del Giardino, venne, or fa un anno, nominato Presidente di questa Società d'Esplorazione Commerciale in Africa, e all'incremento della stessa si applicò subito con tutta l'energia e lo spirito d'iniziativa di cui era capace la sua tempra di ferro, la sua anima piena di vitalità, aspirante a orizzonti sempre più vasti, a lotte, a pericoli, che fruttassero gloria a sè e alla patria.
Progettò dapprima un'esplorazione tra i Mensa e gli Azghediè, sopra Massaua, che venne sconsigliata dal Governo, il quale da troppo breve tempo aveva occupata Massaua, e credeva più opportuno pensare a insediarvisi fortemente, prima di intraprendere escursioni negli altipiani limitrofi.
Venuto in seguito il progetto d'esplorazione all'Harrar, ci si attaccò con ardore e tenacia.
Afferrata l'idea, fermato il progetto, in pochi giorni, con febbrile attività, organizzò la spedizione; ed il 25 del passato gennaio s'imbarcava a Napoli, lasciando quest'Italia, per la cui grandezza egli pure aveva strenuamente operato e per la quale s'accingeva a nuove e ardue prove, che dovevano put troppo per lui e i suoi compagni essere le ultime.
Il conte Porro era alto e snello della persona, dal colorito bruno, dai baffi e capelli nerissimi, dal portamento militare. Forte schermidore, fortissimo cavaliere, realizzava il tipo degli antichi cavalieri dal braccio di ferro e dal cuor generoso.
Le fatiche e i continui esercizi avevano reso di acciaio i suoi muscoli e robustissima la salute.
Gentiluomo perfetto, di carattere franco e gioviale, sapeva subito accaparrarsi una corrente inalterabile di simpatia; il coraggio in lui era per così dire ingenito, e la temerità aveva serena e tranquilla.
Ingegno svegliato e forte, scrittore elegante, facile e spigliato; aveva la volontà ferrea, e l'attività inesauribile.
E tutte queste doti simpatiche, queste forze e operose vennero spezzate a tradimento dal ferro d'un barbaro. da (L'esplorazione commerciale. Viaggi e geografia commerciale, 1886), anno I fascicolo V, pp. 140-141.
[2] Cfr. (Zanzi, 1888).
[3] Fondata nel 1879 a Milano in via Silvio Pellico 6, ha come patrocinatore S.A.R. il Duca di Genova, pubblica la rivista L'Esplorazione Commerciale Viaggi e Geografia Commerciale.
[4] Al momento dei fatti narrati è da 14 anni consigliere politico del residente britannico ad Aden, con funzioni di console a Zeila e Berbera. Inizialmente appoggia un’eventuale occupazione italiana della regione dell’Harar in opposizione alla penetrazione francese, iniziata nel 1869.
[5] (Del Boca , 1976), p. 223.
[6] Cfr. (Paleologo Oriundi, 2009).
[7] Poco più di 4500 euro attuali.
[8] Cfr. (La civilità cattolica, 1886), anno 37, serie XIII, Volume II, quaderno 859, p. 486.
[9] Circa 180.400 euro attuali.
[10] Circa 67.650 euro attuali.
[11] Cfr. (La civilità cattolica, 1886), pp. 486-487.
[12] Giovan Battista Licata nasce a Napoli nel 1859. Consigliere della Società Africana di Napoli (di cui era stato tra i fondatori), professore di scienze naturali al Suor Orsola di Napoli, ha già soggiornato cinque mesi ad Assab nel 1883 compiendo studi sulla flora e sugli insetti locali, nonché su usi e costumi della popolazione; si aggrega alla spedizione per continuare i suoi studi zoologici. (Paleologo Oriundi, 2009), p. 34
[13] Girolamo Gottardi: nacque il 2.11.1853 a Valeggio sul Mincio, consegue la laurea in medicina a Padova nel 1877. Presta servizio nel Regio Esercito come tenente medico fino al 1880. Congedatosi, diviene medico di bordo per due compagnie di navigazione, la Rocco-Piaggio e la Florio-Rubattino, e con tale funzione viaggia in Sud America e in India. Per il suo sempre vivo desiderio di avventure, venuto a conoscenza della spedizione, anch’egli si offre di prendervi parte. (Paleologo Oriundi, 2009), pp. 34-35.
[14] Carlo Cocastelli Conte di Montiglio: nasce a Mantova nell’ottobre 1858, studia legge a Padova e a Bologna. Si trasferisce a Roma, diventando segretario della Società Geografica Italiana. Operoso, modesto, valente conoscitore di scienze naturali parla correntemente inglese, francese, tedesco e spagnolo. Si aggrega alla spedizione per compiere studi meteorologici. (Paleologo Oriundi, 2009), p. 34.
[15] Umberto Romagnoli: nasce a Fenestrelle il 21.3.1861, il padre è ufficiale dell’Esercito. Di corporatura robusta e forza erculea, diviene amico del viaggiatore Bianchi. Quando questi scompare in Eritrea, decide, assieme all’amico Fernè di andare in Africa per vendicarlo e riportarne in Patria i resti. I due si recano ad Assab, ma non è loro permesso di mettersi sulle tracce della spedizione Bianchi per la ferma opposizione del Commissario Pestalozza, che teme un nuovo eccidio data la situazione torbida ed instabile dell’interno. Decidono allora di compiere un viaggio in Harar. Romagnoli diventa poi rappresentante della casa commerciale Filonardi, con sede a Zanzibar e per questo soggiorna a lungo ad Aden. Saputo della spedizione Porro, chiede ed ottiene di parteciparvi, sia per la sua conoscenza del territorio, sia per verificare concrete possibilità commerciali. (Paleologo Oriundi, 2009), p. 34.
[16] Guglielmo Zannini: nasce a Sandrigo in provincia di Vicenza, il 20.2.1857. Studia legge a Pisa e a Padova. Compie numerosi viaggi in Italia e all’estero. Conosciuto il Porro, diviene membro della spedizione. (Paleologo Oriundi, 2009), p. 34.
[17] Paolo Bianchi: nasce ad Assisi il 6.10.1855, studia nel liceo di Spoleto. Dal 1873 al 1877 serve nel Regio Esercito come sottufficiale dei bersaglieri. Per la sua abilità è nominato tiratore scelto. Congedatosi, si dedica a seguire gli affari di casa. Rimane però in lui il desiderio di compiere un grande viaggio di esplorazione, ed è così che chiede di partecipare alla spedizione. (Paleologo Oriundi, 2009), p. 35.
[18] Giuseppe Blandino: nasce a Susa il 16.1.1846; come soldato di leva è attendente del Porro, e continua a rimanere alle sue dipendenze anche finita la ferma. Accompagna il Porro in Africa. (Paleologo Oriundi, 2009), p. 35.
[19] (Del Boca , 1976), pp. 223-225.
[20] Cfr. (La civilità cattolica, 1886), p. 489.






mercoledì 5 gennaio 2022

Ricordo di un volontario di guerra: il capitano Grazioso Comolli

Il volontarismo di guerra italiano (o volontariato militare) - dal Risorgimento alla Seconda guerra mondiale - può annoverare figure eccezionali, storie di coraggio spinto all'estremo, azioni eclatanti. Tuttavia, il significato fondamentale dell'essere un volontario di guerra risiede anzitutto nella libera scelta di arruolarsi ed essere pronto a combattere per la Patria, ad affrontare i più grandi sacrifici ed eroismi, quand'anche questi non si verifichino. La breve storia che qui vi raccontiamo, in effetti, ci pare esemplare di questo essenziale significato.

***

Un paio di settimane fa, recandomi al Cimitero Maggiore di Como a visitare i miei cari prima di Natale, come al solito ho allungato il giro, passando in qualche zona per me ancora inesplorata del camposanto. 

In una galleria sotterranea - peraltro in stato di vergognosa incuria, va detto - alzando lo sguardo ho intravisto una lapide, sporca e malmessa, ornata di un vecchio mazzetto di fiori finti, anneriti dal tempo. Attirato dall'epitaffio, mi sono concentrato sulla fotografia: è stato a quel punto che ho realizzato di riconoscere il volto che avevo di fronte. Lo avevo già visto su una fotografia, trovata in qualche mercatino almeno quindici anni fa.

Il capitano Grazioso Comolli in partenza per l'Africa. Spiccano i nastrini da reduce della Grande guerra. (coll. dell'A.)

Scoprivo così il nome di questo capitano del Regio Esercito, un po' attempato, ma dallo sguardo fiero: Grazioso Comolli. Di lui tenteremo di raccontare qualcosa ai nostri lettori.

*

Grazioso Comolli nacque a Laglio, splendido borgo del nostro bel Lago di Como, il 18 gennaio 1885. Era figlio di Antonio Comolli, di professione tagliapietre, e di Giovannina Sampietro. La famiglia abitava in frazione Soldino, posta all'ingresso del borgo - proprio dove tanti decenni dopo si sarebbe insediato un celebre divo holliwoodiano - ove Grazioso crebbe, di fronte alle acque lariane.

Provenendo da una famiglia alquanto umile, Grazioso, con grandi sacrifici, mise in piedi in piccolo esercizio commerciale, sempre nella sua Laglio. Questo gli consentì, nel novembre del 1911, di convolare a nozze con la signorina Adele Airoldi, di Menaggio, di condizione agiata e a sua volta figlia di negozianti.

Con lo scoppio della Grande Guerra, Comolli fu chiamato alle armi insieme alla classe 1885 ed assegnato all'arma di Fanteria. Benché non avesse particolari studi alle spalle, fu in seguito promosso al grado di aspirante ufficiale con anzianità dal 25 agosto 1916 ed assegnato all'11° reggimento Bersaglieri. Con anzianità 15 novembre 1917 fu poi promosso tenente, grado con il quale Comolli combatté fino al termine delle ostilità. 

Congedatosi dal Regio Esercito, tornò sul Lario, spostandosi però nel capoluogo: a Como, in quegli anni tumultuosi del nostro complesso dopoguerra, vi era comunque una richezza alquanto diffusa e una certa richiesta di beni di lusso. Comolli, con ottima intuizione, decise allora di dedicarsi al commercio di automobili, che portò avanti con successo sino alla metà degli anni Trenta.

Si era, in quegli anni, nel momento di massima popolarità del regime fascista. Un periodo particolare della nostra storia, preludio di gravi tragedie, ma ancora caratterizzato da una forte spinta emotiva e da una forte compartecipazione ideale con le iniziative del regime. Non è questa la sede per analizzare il senso e l'utilità dell'avventura coloniale che l'Italia intraprese in quel frangente: è bene però sforzare di comprendere ciò che essa rappresentò per tanti Italiani, tra i quali il protagonista di questo articolo.

Grazioso Comolli, infatti, dovette vivere con grande entusiasmo i mesi a cavallo dell'estate del 1935 che videro la mobilitazione delle forze armate italiane in vista dell'impiego in Africa Orientale. Comolli, nel frattempo, nella primavera del 1935 - pur trovandosi in congedo - era stato promosso al grado di capitano .

Lo ripetiamo: non si vuol qui fare alcuna apologia della guerra, del colonialismo ed in particolare della campagna italiana in Etiopia. Quel che ci preme è interrogarci sui sentimenti che spinsero il nostro Grazioso, agiato commerciante d'auto cinquantenne, a lasciare la moglie, le comodità della propria casa, la sicurezza e tranquillità economica, per tornare ad indossare l'uniforme che aveva portato con onore durante la Grande guerra, e partire alla volta dell'Africa.
Comolli, mosso da un groviglio di sentimenti oggi difficilmente interpretabili, decise così di presentarsi volontario per la campagna etiopica.
La sorte lo destinò alla Divisione di fanteria "Cosseria" (5^).

Cartolina commemorativa della Divisione "Cosseria".

Tale grande unità del R. Esercito, con le ultime modifiche dell'ordinamento militare (divisioni c.d. ternarie), inquadrava in tale momento il 41° Rgt. Fanteria e il 42° Rgt. Fanteria "Modena" e l'89° Rgt. Fanteria "Salerno", nonché il 29° Rgt. Artiglieria per Divisione di fanteria. Le unità della Divisione erano tutte di stanza in Liguria, in particolare nella provincia di Imperia.

Il capitano Comolli in uniforme coloniale.

Il 19 agosto del 1935 la Divisione di Fanteria di Cosseria (5a), con la Brigata di Fanteria di Cosseria (V), strutturata sui soli 41° e 42° Rgt. Fanteria, e sul 29° Rgt. Artiglieria fu inviata in colonia, imbarcandosi a Genova. La divisione raggiunse dunque la Cirenaica, stanziandosi a Bengasi. Qui rimase, in preparazione, sino al mese di dicembre del 1935.

Con il gennaio del nuovo anno 1936, la "Cosseria" fu trasferita nel Corno d'Africa, raggiungendo l'Eritrea. L'unità fu dunque dislocata ad Adi Gualà (Adi Quala) nell'alto Mareb
In tale zona svolse principalmente attività di controllo e protezione delle retrovie del fronte di combattimento. 
Nel marzo del 1936, la "Cosseria" avanzò lungo l'itinerario Adi Onfitò-Axum e in aprile si dislocò nella zona di Adua. Terminata la guerra Italo-Etiopica il 5 maggio 1936, la "Cosseria" rimase in zona, impegnata in operazioni di polizia, ancora sino al mese di agosto.
Nel mese di settembre, la Divisione si imbarcò alla volta dell'Italia, sbarcando nel porto di Genova.

Grazioso Comolli, nel frattempo promosso al grado di Primo Capitano, si trovava insieme ai suoi compagni d'arme. La sorte lo doveva però privare della soddisfazione di tornare a rivedere le sponde del suo Lario, di tornare alla sua casa e tra le braccia della moglie Maria.
 
Infatti, nelle ultime settimane di presenza in Africa, un misterioso male - contratto in servizio - si era impadronito di lui. Appena sbarcato a Genova, Comolli fu dunque ricoverato presso il locale Ospedale Militare.
Qui, dopo pochi giorni di sofferenze, si spense, cinquantunenne, il 6 ottobre del 1936
La sua salma fu trasportata a Como, ove fu inumata presso il Cimitero Maggiore, come narrato all'inizio di questo articolo.

Lapide del cap. Comolli presso il Cimitero Maggiore di Como.

Il nome di Grazioso Comolli fu iscritto sul monumento ai caduti del Comune di Laglio e tra quelli degli altri volontari comaschi caduti nella campagna in Africa Orientale sul monumento eretto nell'antica sede dell'Associazione Nazionale Volontari di Guerra di Como, sita in Piazza Medaglie d'Oro.

Al suo ricordo dedichiamo questo modesto contributo.

A cura di Niccolò F.
 

domenica 19 dicembre 2021

Dalla Russia alla Somalia: l'avventurosa carriera del gen. Bassano Secchi

Dopo la storia del generale Enrico Secchi, il suo ottimo ed omonimo nipote ci dona un altro prezioso contributo: stavolta, il protagonista sarà Bassano Secchi, figlio del generale Enrico, ed a sua volta destinato a una brillante quanto movimentata carriera militare nelle file del Regio Esercito prima, e dell'Esercito Italiano poi. Tale pubblicazione lo intende, peraltro, ricordare proprio nel centenario dalla sua nascita.

***

Bassano Secchi nacque il 24 agosto 1921 a Como, dove il padre Enrico comandava la locale Compagnia esterna dei Carabinieri Reali.

Note storiche circa la famiglia Secchi

La famiglia Secchi, però, è originaria di Lodi e le prime notizie su di essa, tratte dall’Archivio Storico della Biblioteca Comunale della città, risalgono al XV secolo e si sintetizzano nelle seguenti:

“Famiglia antica di Lodi di Partito Guelfo. Si trova in parentela con varie Nobili Famiglie di Lombardia ed un ramo passò ad abitare anche a Milano.

Angela nel 1655 lasciò eredi le Orfane di Lodi d’ogni suo avere e una messa quotidiana in S. Francesco alla Cappella di Famiglia della B. V. di Caravaggio.

Ca’ de’ Secchi cascinale di loro fondazione sotto Senna.

Bertolino Canonico della Cattedrale di Lodi andò a Roma nel 1457 per incarico dei Deputati dell’Ospitale Maggiore che stavano costruendo onde ottenere conferma di privilegi e decreti d’annessione degli altri Ospitali dal Papa.” 

Alla fine del secolo XVIII, la Famiglia Secchi possedeva un consistente patrimonio immobiliare, ma i tre fratelli Secchi (Bassano, Angelo e Giacinto), entusiasti seguaci dei nuovi ordinamenti liberali, dovettero temere, per tale motivo, per la loro libertà ed incolumità personale. I due fratelli minori - Angelo e Giacinto -, quindi, decisero di abbandonare la loro bella Lombardia e di andare in Paesi più liberi e democratici. Pertanto, svenduto il loro patrimonio immobiliare in tutta fretta e diviso il ricavato in parti uguali, i due fratelli minori abbracciarono Bassano, dicendo che sarebbero emigrati in America, ma, poi, di loro non si ebbe più alcuna notizia.

Bassano (1790-1860), che non aveva voluto ad alcun costo lasciare la sua città e con una buona cultura umanistica e matematica, nonostante le difficoltà dovute alla restaurazione asburgica, riuscì a trovare il posto di Segretario ed Economo, presso il “Collegio delle Dame Inglesi”, fondato da una nobile dama venuta dall’Inghilterra, di nome, Lady Mary Hadfield Cosway. Bassano fece subito colpo sulla segretaria e dama di compagnia di Lady Cosway, Anna Elmi, appartenente ad una distinta famiglia di Foligno, per cui si sposarono ed ebbero nel 1827 un unico figlio di nome Francesco.

Francesco (1827-1874) studiò nel Collegio stesso delle Dame Inglesi, e incline alle arti e specialmente alla musica, fu fatto anche studiare presso valenti maestri dell’epoca. A venti anni, nel 1847, sposò Virginia Cavenaghi, appartenente ad una ricca famiglia di Crema, proprietaria soprattutto di immobili. Pochi mesi dopo il matrimonio, nel marzo 1848, Francesco, allevato dal padre nelle idee liberali, partì con altri patrioti per Milano, ove partecipò alla rivolta contro l’oppressore asburgico, combattendo durante le “cinque giornate” contro le truppe austriache del Maresciallo Radetzky e rientrando a Lodi solo dopo il pieno successo dell’insurrezione. Per questa sua partecipazione attiva alla prima guerra del Risorgimento, dopo il 1849, quando il governo austriaco ritornò in Lombardia, Francesco dovette subire ritorsioni da parte della polizia imperiale, ma ebbe la grande soddisfazione, nel 1859, di vedere la sua terra finalmente libera e riunita in un’unica Nazione, la tanto sospirata Italia. Francesco, a parte questi problemi di carattere politico, divenne un imprenditore, fra l’altro, nell’industria del teatro lirico, nel cui settore si distinse, ottenendo peraltro più soddisfazioni morali che materiali.

Ebbero cinque figli, ma un solo maschio Bassano (1860-1911), che, rimasto orfano del padre a soli tredici anni, si affiancò subito alla madre nella guida della famiglia, dove vi erano quattro sorelle da seguire e accollandosi, ancora da ragazzo, responsabilità da uomo. Conseguito il diploma di Istituto Tecnico, vinse per concorso un posto di funzionario nell’Amministrazione Comunale di Lodi, divenendo col tempo Capo Ufficio del suo settore. Bassano si sposò felicemente nel 1884 con Zaira Wilmant, proveniente da una ricca famiglia lodigiana di editori e patrioti. Tra i numerosi fratelli di Zaira vi erano Tieste Wilmant e, soprattutto, Vero Wilmant, destinato a una brillante carriera nel Regio Esercito.

Bassano Secchi e Zaira Wilmant ebbero due figli, Francesco, laureato in giurisprudenza, Segretario Generale degli Istituti di Beneficenza del circondario di Lodi e tenente di complemento d’artiglieria durante la prima guerra mondiale ed Enrico (1887-1963), che intraprese la carriera militare e partecipò alla guerra di Libia, alla prima e alla seconda guerra mondiale, divenendo generale di brigata dei Reali Carabinieri. Enrico, sposatosi con Francesca Moriondo, proveniente da una distinta famiglia di Asti, ebbe due figli di cui una femmina, Domitilla, e un maschio, Bassano, appunto.

Giovinezza e inizio della carriera militare

Bassano, che a causa dei numerosi trasferimenti del padre aveva avuto un trascorso scolastico un po’ travagliato, cambiando continuamente scuola tra Lucca, Lodi, Grosseto, Bologna, L’Aquila e Bari, nel 1935 giunse a Milano, dove venne iscritto al Regio Ginnasio “Giuseppe Parini”, ove frequentò, finalmente senza interruzioni, la Va Ginnasio e le tre classi liceali, dopodiché si iscrisse alla Regia Università degli Studi di Milano (allora dislocata in Via Torino) nella Facoltà di Giurisprudenza.

Il desiderio del padre era che esercitasse la libera professione, ma gli avvenimenti, che sconvolsero, non solo l’Italia, ma tutto il mondo, diedero a tali proponimenti una svolta completamente diversa. Nell’agosto 1939, infatti, scoppiò la Seconda guerra mondiale e, nel giugno 1940, anche l’Italia entrò nel conflitto. Bassano stava frequentando il II° anno di Università, quando il 1° marzo 1941 venne chiamato alle armi e destinato al 62° Rgt. Ftr. Mot. della D. “Trento” a Trento. La sua chiamata era seguita alla decisione del Governo di fare partecipare al conflitto subito gli Universitari della classe allora più giovane e, cioè, proprio il 1921. Tutti questi ragazzi dovevano diventare Ufficiali, ma il Corso Allievi, proprio per loro, venne modificato per poterli meglio preparare per i futuri compiti in guerra; il Corso venne portato da 6 mesi a 12 mesi, diviso in due fasi, la prima presso Reparti operativi e la seconda presso le Scuole di Specializzazione.

Verso la fine di marzo, venne formato un Battaglione Allievi che fu inviato a Vipiteno e inquadrato in un'unità della Guardia alla Frontiera (G.a.F., particolari truppe, con caratteristiche alpine, costituite allora per la difesa delle frontiere, specialmente sulle Alpi). Lo scopo di questo trasferimento era quello di formare il fisico degli Allievi alle fatiche della vita militare; perciò, oltre agli studi specifici, non mancarono: giornaliere esercitazioni di addestramento al combattimento con spostamenti, naturalmente sempre a piedi, in tutte le zone montuose circostanti; ginnastica atletica; continue esercitazioni di tiro con tutte le armi di reparto e individuali (mitragliatrici “Breda” e mortai da 45 e da 80 compresi) e, “dulcis in fundo”, ogni venerdì una marcia con partenza all’alba e rientro all’imbrunire, con zaino al completo e armamento. Alla fine di maggio, il Reparto si spostò a Bressanone (tappa a piedi, con tutto il bagaglio personale e tutto l’armamento sulle spalle), da dove cominciò il Campo mobile. La 2a Compagnia, alla quale apparteneva Bassano, fece soste di tre o quattro giorni ciascuna, a Rio di Pusteria, a Spinga e nella stessa Bressanone (naturalmente trasferimenti sempre a piedi). Il 15 giugno, conferito a tutti gli Allievi idonei fisicamente e previo esame sulle materie studiate (purtroppo, vi furono delle bocciature, accolte con molta delusione da parte degli interessati) il grado di Sergente Allievo Ufficiale, il Battaglione rientrò a Trento. Ai primi del mese di luglio, Bassano, a seguito di concorso per titoli, venne trasferito nel Corpo Automobilistico ed avviato ad un Corso di addestramento preparatorio per la specialità presso il 4° Autocentro di Verona, dove cominciò a conoscere meccanicamente e ad apprendere praticamente la guida di tutti gli automezzi allora in dotazione all’Esercito.

Il Corpo Automobilistico era stato costituito solo nel 1936, per gestire tutti i trasporti e, nel campo della motorizzazione, le riparazioni e i rifornimenti a favore di tutte le Unità dell’Esercito.

Bassano Secchi allievo ufficiale a Torino nel '41-'42.

Il 1° settembre, Bassano fu assegnato alla Scuola Allievi Ufficiali del Corpo di Torino, sita in Via Brione (poi sede della Ia O.R.E.), e dopo sei mesi di Corso, superati gli esami finali, fu nominato S.Tenente con anzianità 16 marzo 1942. Sotto la stessa data si presentava al 10° Centro Automobilistico di Napoli, dove prestò servizio per circa cinque mesi come Comandante di autosezione. Nel frattempo, dopo aver presentato ufficialmente domanda per essere inviato al Fronte, incominciò a premere insistentemente sul padre perché lo aiutasse a essere destinato in Russia, dove altri suoi colleghi ed amici erano già stati avviati. 

Benché naturalmente riluttante, il padre, sempre pressato da Bassano, si recò a Roma, al Ministero della Guerra, dal Direttore Generale degli Ufficiali, Generale Cappa, suo compagno di Accademia, che, con stupore e, nel contempo, con ammirazione per quella inconsueta richiesta, provvide a tale assegnazione. Così, il 22 agosto 1942, giunse il relativo dispaccio che destinava il S.Ten. Secchi al X° Autoraggruppamento di Manovra (Col. Montrucchio) - 60° Autogruppo (Magg. Mazzei e, poi, Ten. Col. Commento) - 253° Autoreparto Pesante (Capitano Falanga), operante alle dirette dipendenze dell’8a Armata schierata sul Fronte Russo. Partito da Napoli e dopo alcune soste presso i Distaccamenti di Brescia e di Piacenza del 3° Rgt. Autieri di Milano (i Centri Autieri avevano assunto la denominazione di Reggimenti, in quanto il Corpo Automobilistico sarebbe dovuto diventare Arma), ai primi di settembre, Bassano raggiunse il Comando sosta di Bologna, da dove, dopo una settimana, fu inviato a Verona; da questa città, verso la metà di settembre, partì con la tradotta militare per il Fronte Russo. Il viaggio iniziò sotto un diluvio, per cui, dopo una sosta a Trento, il treno dovette fermarsi a Bronzolo, a causa di una frana che aveva bloccato la linea ferroviaria. Dopo due giorni, riprese il viaggio, che seguì il seguente itinerario: Bolzano - Brennero - Innsbruck - Rosenheim - Salisburgo - Linz - Vienna - Bratislava - Leopoli - Kiev - Karkov - Millerovo.

La campagna di Russia

In quest’ultima località ebbe termine il tragitto ferroviario e tutti i militari trasportati furono smistati ai vari Reparti di appartenenza. Bassano, quindi, proseguì per Voloscilovgrad, dove si presentò al Comando del X° Autoraggruppamento. Dopo una breve sosta, raggiunse - al comando di una autocolonna diretta a nord, lungo l’itinerario: Certkovo - Kantemirovka - Rossohs, (lasciando pertanto l’Ucraina ed entrando proprio nel territorio russo) - il 253° Autoreparto, dislocato nel paese di Stojanovo-Blinskj, presso il capoluogo di Ostrogoshsk, a sud di Voronesh. La nuova sede si trovava a circa 80 Km a nord di Rossohs - dove era schierato il Corpo d’Armata Alpino (DD. Tridentina, Cuneense, Julia), ala sinistra dell’8a Armata Italiana - e a ridosso delle linee tenute dalle Unità Ungheresi e da Unità Tedesche. In questa sede, il 253° Autoreparto rimase fino all’alba del 16 gennaio 1943, giorno di inizio della ritirata. Durante questo periodo, il Reparto lavorò duramente con autocolonne continue in zone particolarmente sottoposte a bombardamenti aerei, ad infiltrazioni di elementi dell’Esercito Sovietico e a improvvisi attacchi di partigiani, in quanto le linee nemiche distavano soltanto qualche chilometro.
Cimitero di guerra italiano in Russia nel '42-'43.

Verso la fine di novembre del 1942, Bassano contrasse una dolorosa tendosinovite ad entrambi i talloni di Achille, che, risoltasi positivamente in breve tempo per quanto riguarda il piede sinistro, nel piede destro, malamente curato all’inizio, si trasformò in un principio di necrosi all’altezza del tallone stesso. Bassano, peraltro, non volle, come consigliato dai medici, essere ricoverato in un Ospedale Militare, poiché ciò avrebbe voluto dire lasciare il suo Reparto per chissà quanto tempo. Per fortuna trovò presso una vicina Unità un ottimo medico militare, valido chirurgo da civile, che sottopose la parte infetta della gamba ad un intervento, asportando, solo mediante un bisturi ed una speciale forbice (l’attrezzatura sanitaria in loco era molto precaria) e senza alcuna anestesia locale, la carne già incancrenita e portando allo scoperto la carne ancora viva. Ogni giorno, poi, si doveva provvedere a eliminare la parte che, ricrescendo, continuava ad infettarsi; in un primo tempo, sempre tagliando e, successivamente, quando l’azione cancrenosa incominciò ad attenuarsi, bruciando col nitrato d’argento. Comunque, Bassano, sia pur zoppicando, continuò, sempre contro il parere dei sanitari che temevano serie complicazioni e che pertanto insistevano per ricoverarlo in un ospedale, ad espletare i suoi compiti e, grazie alla grande medicina dei vent’anni, riuscì a guarire contro ogni pronostico!

Intanto, i giorni scorrevano e, nel dicembre 1942, incominciarono a pervenire notizie sull’avvenuto massiccio attacco delle Armate Sovietiche contro l’ala destra e il centro dell’8a Armata, che iniziavano a cedere.

Prigionieri russi scortati da truppe tedesche nel '42-'43.

La sera del 31 dicembre 1942, il Comandante dell’Autoraggruppamento (Col. Montrucchio) venne a cena presso la mensa Ufficiali del 253° e, al termine del pasto, nel brindare e fare gli auguri a tutto l’Autoreparto, al suo Comandante e agli Ufficiali, comunicò che, in caso di arretramento delle linee anche nella zona, al 253° sarebbe stato assegnato il compito di retroguardia, concludendo con una frase che si può così sintetizzare: “Al migliore Reparto l’onore dell’incarico più pericoloso”. Il 253°, infatti, grazie alle particolari qualità militari, morali e di carattere del suo Comandante, - che era riuscito a forgiare a sua somiglianza Ufficiali, Sottufficiali e Autieri - era considerato il Reparto di punta del X°. Comunque, l’incarico di retroguardia, dati i precedenti in materia, era da considerarsi, più che pericoloso, da disperati, ma tutti gli Ufficiali se ne sentirono orgogliosi. 

Dopo il 10 gennaio, la temperatura calò bruscamente, raggiungendo i 30/40 gradi sottozero e l’offensiva sovietica si scatenò contro le antistanti linee tedesche e ungheresi. Il 253° venne subito impiegato in appoggio alle Unità corazzate germaniche e il 13 gennaio due autocolonne cariche di carburante per la 227a Divisione corazzata tedesca, di cui una comandata proprio da Bassano, vennero attaccate da reparti motorizzati russi. 

Nostri mezzi bloccati nella neve nell'inverno 1942-1943.


Gli scontri furono brevi, ma violenti; i reparti sovietici, affrontati con estrema decisione, si ritirarono, le due autocolonne subirono le prime perdite in uomini e mezzi, ma i compiti previsti furono portati regolarmente a termine. Il 15 sera, iniziarono violenti bombardamenti aerei; venne dato subito l’ordine di approntare il 253° - ultimo Autoreparto, come previsto, rimasto a Ostrogoshsk - per la ritirata. Incominciò il carico delle ultime truppe rimaste a difesa della città; dopo mezzanotte, cessò l’attacco aereo ed entrò in azione l’artiglieria sovietica; Ostrogoshsk era ormai in fiamme e, alla luce degli incendi, il 253° continuava ad operare con calma, destreggiandosi tra macerie e caduti di tante nazionalità; i reparti nemici stavano ormai entrando nella periferia della città praticamente deserta. All’alba del 16 gennaio 1943 iniziò il ripiegamento, sicuramente la fase bellica più crudele, più dolorosa e più sanguinosa che un’Armata Italiana dovette mai affrontare durante tutto il conflitto.

Carro armato russo T34 catturato.
Il 253°, carico di uomini, di armi e di materiali, ripiegò a scaglioni; l’ultimo scaglione, con il Capitano Comandante e il S.Ten. Secchi, suo Ufficiale Addetto e V. Comandante, lasciò, verso le sei del mattino, la città quasi ormai distrutta, inseguito da nuclei di carri armati sovietici. Malgrado che venisse a lungo bersagliato da cannonate e raffiche di mitragliatrice, lo scaglione riuscì a sottrarsi al nemico e a riunirsi al resto del reparto; proseguirono perciò insieme, sotto continui bombardamenti aerei, lungo la linea di ritirata: Aleksievka, Budiennj, Valuiki, dove vi fu un violento e prolungato scontro con truppe siberiane e mezzi corazzati nemici e dove il Reparto, reagendo con tutte le proprie forze e con accanimento e riuscendo perciò a sganciarsi, subì fortissime perdite in uomini e mezzi. 

Mezzi e animali intrappolati nella neve.

Alle prime luci del 19 gennaio 1943 (ricorrenza di S. Bassano), i resti del 253° raggiunsero Karkov. In questa località, l’Autoreparto, sebbene decimato negli uomini e con il parco mezzi quasi distrutto, venne fermato dal locale Comando Italiano e, rinforzato con altro materiale, subito reimpiegato a sostegno della vicina zona di Kupiansk, già minacciata dalle forze nemiche. Ma anche Kupiansk cadde e i combattimenti si spostarono nella zona di Karkov, ormai sotto tiro delle artiglierie russe. 

Tramonto durante la ritirata.

Verso la fine di febbraio, il 253°, rinforzato da altre unità motorizzate e carico di uomini e materiali, iniziò un ulteriore spostamento verso ovest, lungo la direttrice: Sumy - Romny - Priluki, fino a raggiungere, - dopo continui bombardamenti aerei, attacchi improvvisi di reparti motorizzati e corazzati sovietici, imboscate di partigiani - la città di Kiev

Ultime fasi della ritirata, febbraio 1943.

Qui, in pratica, finì la ritirata vera e propria, perché i successivi spostamenti furono effettuati in ambiente relativamente più sicuro, pur se sempre sottoposti a continui attacchi aerei. Da Kiev il 253° si spostò a Nescin, dove fu ancora impiegato in diversi compiti a carattere logistico. Verso la fine di marzo, l’autoreparto lasciò questa ultima località e, superata Cernigov, entrò nella Russia Bianca, raggiungendo Gomel. Qui finalmente si riunì al X° Autoraggruppamento dal quale, da circa due mesi e mezzo, aveva perso ogni contatto, mentre veniva impiegato da tutti i Comandi, sia italiani, sia tedeschi, via via incontrati, senza un attimo di sosta, malgrado le forti perdite subite, talché per un certo periodo era stato dato - nella tragica situazione del momento, ove intere unità sparivano travolti dalla furia bellica - per disperso.

Villaggio incendiato, raggiunto durante le ultime fasi della ritirata (febbraio 1943).

Ora finalmente il 253° poteva riorganizzarsi, contare i suoi Caduti, curare i suoi feriti o ammalati, dare respiro a tutti coloro che avevano superato con coraggio, con sacrificio, con dedizione assoluta e, diciamo pure, anche con una buona dose di fortuna, ogni sorta di pericoli. Aveva percorso centinaia di chilometri, continuamente attaccato, sanguinosamente colpito da un nemico sempre in agguato, torturato dalle intemperie di un clima letteralmente agghiacciante, lasciando lungo le piste innevate uomini e mezzi, ma riuscendo a ribattere colpo su colpo, a superare ogni ostacolo, a resistere anche quando tutto sembrava finito, a compiere, infine, sempre e ovunque, il proprio dovere con serenità e consapevolezza, senza mai compiangersi o lamentarsi. 

Nella zona di Gomel erano state radunate tutte le Unità italiane che, convenientemente completate, potevano essere ricostruite e impiegate: un Corpo d’Armata su tre Divisioni con supporti vari e un Autoraggruppamento, il X°. Ma, verso la metà di aprile, giunse l’ordine di rientro in Patria e anche il 253°, con varie tradotte, lasciò la zona di guerra. Così per Bassano aveva termine, dopo circa sette mesi, uno dei periodi più importanti della sua vita, che, da ancora ragazzo, lo aveva trasformato in uomo, attraverso esperienze certo crude e dolorose, ma determinanti per la formazione del suo carattere.

Al comando di una parte del suo Reparto, Bassano iniziò un viaggio al contrario, ma simile a quello dell’arrivo: Gomel-Luminez-Leopoli-Bratislava-Vienna-Linz-Salisburgo-Rosenheim-Innsbruck-Brennero-Vipiteno. Qui, i militari scesero, fermandosi per visite mediche di controllo e per la disinfestazione, mentre i mezzi, presi in consegna da militari del 4° Reggimento Autieri, proseguivano per Verona. Dopo la disinfestazione, i militari furono trasferiti a Dobbiaco, dove rimasero per quindici giorni in quarantena e dove Bassano potè riabbracciare il padre, che prestava servizio a Trento; al termine di questo periodo, raggiunsero Verona. Colmati i vuoti in uomini e materiali, l’Autoreparto si spostò, prima a Montichiari (Brescia) ed, infine, a Livorno, ove venne impiegato in attesa di nuova destinazione.

L'armistizio

Ma giunse l’8 settembre 1943, data dolorosa e apportatrice di nuove sventure e lutti. Nella confusione indescrivibile del momento il 253° dapprima si oppose con le armi ai reparti tedeschi, che volevano catturarlo, ma alla fine, con l’arrivo di ulteriori forze germaniche e a seguito di ordini superiori dati per iscritto, resi inefficienti le armi e i mezzi in dotazione, si sciolse.

I reparti tedeschi, disarmati gli italiani, consegnarono in caserma la guarnigione, ma Bassano col suo capitano e altri coraggiosi, non volendo rimanere prigionieri dei tedeschi, né aderire alla Repubblica di Salò, riuscirono di notte col favore delle tenebre a guadagnare la libertà, facendosi strada tra i proiettili delle sentinelle tedesche, che purtroppo fecero qualche vittima tra i fuggitivi.

Bassano, con il suo capitano, trovò, poi, fraterna accoglienza presso la Famiglia Marcacci, una delle più distinte della zona, nella loro villa, a pochi chilometri da Livorno.

Questa famiglia era costituita da quattro sorelle, che furono per Bassano più che sorelle e non vollero mai - anche nei momenti più pericolosi e tristi dei rastrellamenti degli uomini e particolarmente degli Ufficiali che non avevano aderito alla Repubblica Sociale del nord, da parte delle SS tedesche -, abbandonare i loro ospiti, anche se sapevano di rischiare, anch’esse, la deportazione, se non addirittura la vita. Donne, pertanto, di alta levatura morale, di animo forte e dotate di profondo amore patrio e di sincera pietà (dalla “pietas” latina) cristiana.

Ma anche il periodo di attesa per ricongiungersi con il Regio Esercito da parte dei due ufficiali non fu esente da rischi e pericoli, perché era loro volontà non aderire alla Repubblica di Salò, ma reintegrarsi al più presto con le Forze Regie, verso le quali avevano prestato giuramento di fedeltà. Dal canto loro, i Tedeschi continuavano a rastrellare il territorio ancora sotto il loro controllo ed a catturare gli uomini, tanto è vero che nelle campagne del livornese le donne in simili frangenti giravano appositamente per avvisare gridando “acchiappall’omini” e tutti scappavano nascondendosi come potevano. 

I Tedeschi angariavano anche la popolazione locale per approvvigionarsi e per rappresaglia ed in uno di questi rastrellamenti Bassano si trovava nel suo rifugio presso la famiglia Marcacci, mentre il suo Capitano si era occasionalmente allontanato. In quell’occasione si presentarono a Bassano due delle sorelle Marcacci, cercando aiuto, disperate ed in lacrime, chiedendo di intervenire perché due Tedeschi, entrambi appartenenti alle SS, volevano prendere in ostaggio il figlio undicenne -unico figlio ed unico nipote di tutte le quattro donne-. Infatti, i due militari tedeschi avevano requisito un’infinità di prodotti della vasta campagna di proprietà delle sorelle, svuotando le dispense ed i magazzini destinati al sostentamento anche dei contadini ed ammassando ogni ben di Dio su di un capiente camion. A quel punto, i due militari, per assicurarsi di non essere poi assaliti dai contadini inferociti durante l’attraversamento delle campagne, avevano preso come ostaggio il figlio di una delle sorelle, appena undicenne. Bassano, all’epoca ventitreenne, in assenza del suo Capitano e sentendosi vincolato alla riconoscenza nei confronti di quelle donne, si disse pronto ad intervenire. Corse insieme a loro e si presentò ai due sottufficiali tedeschi così come era, ovvero in abiti civili, dicendo di lasciare il bambino e di prendere lui, un uomo, al suo posto. I due furono irremovibili, ma presero anche Bassano senza lasciare andare via il ragazzo. Bassano e Francesco salirono allora sul camion e, dopo un pò, i due tedeschi, ormai fuori dalla zona da loro ritenuta pericolosa, dovevano decidere cosa fare dei due ostaggi e decisero di eliminarli. Gli fecero scavare una buca per sotterrare i loro stessi corpi e, quando fu tutto chiaro, Bassano supplicò i due di uccidere lui, ma di lasciare andare Francesco: ci furono momenti drammatici in cui Bassano cercò di strappare dalle loro mani il bambino, nonostante fosse sotto il tiro delle pistole puntate su di lui. Ma non spararono, anzi uno dei due, il maggiore in grado ed il più anziano, forse colpito per il gesto di coraggio del giovane e mosso a compassione per la sorte del bambino, che piangeva disperato, rivolgendosi in lingua tedesca all’altro gli ordinò di lasciarli andare. A quel punto i due militari incominciarono a litigare violentemente tra loro, perché il più giovane voleva invece eliminarli, e vennero anche alle mani, fino a che il superiore non arrivò a puntare addirittura l’arma contro il suo sottoposto, contemporaneamente urlando a Bassano di scappare insieme al bambino. Corsero per ore, fino a che non entrarono nel latifondo delle sorelle Marcacci, dove i contadini riconobbero il bambino e li riportarono indietro a casa su un carretto: furono festeggiati per giorni entrambi.  

Quel bambino divenne un uomo e per tutta la vita di Bassano non fece passare mai un Natale, una Pasqua o un onomastico senza chiamarlo al telefono, fino a che, il giorno di san Bassano del 2003, rispose al telefono di casa solo la moglie Clara, comunicandogli che proprio quello stesso giorno Bassano era venuto a mancare: a quel punto Francesco si sciolse in un pianto dirotto, fino a non poter più proseguire la telefonata, mai dimentico del bambino che era stato e dell’uomo che, pronto a rinunciare alla propria, gli aveva salvato la vita.  

Così si arrivò all’agosto 1944, quando gli Alleati, a cui si erano affiancate le Truppe del Regio Esercito, giunsero nei pressi di Livorno. Bassano, insieme al suo Capitano, approfittando di tale situazione e sempre con l’aiuto della Famiglia Marcacci, raggiunse, attraverso le linee, la zona occupata dagli americani e, dopo un viaggio fortunoso, arrivò a Roma. Qui, il Capitano proseguì verso Napoli, sua città, e Bassano verso Tagliacozzo, dove si ricongiunse al padre. Nel gennaio 1945, riprese servizio e fu assegnato alla 266a Compagnia Autonoma Autieri A.C. (Allied Comission), dipendente dal Quartier Generale Alleato in Roma.

Il dopoguerra 

Il 1° settembre 1946 passò in servizio al 21° Autoreparto Speciale, sempre in Roma, trasformatosi, poi, in Reparti Auto dello S.M.E. ed, infine, in Autogruppo dello S.M.E.

Nel marzo 1947, a seguito di una proposta dei suoi Superiori diretti durante la Campagna di Russia, fu trasferito in Servizio Permanente Effettivo per Merito di Guerra con la seguente motivazione:

 “Ufficiale automobilista comandante di Autosezione di non comuni qualità ha sempre prodigato le sue energie al servizio. Nel corso di un ripiegamento del fronte subiva ripetutamente l’attacco di preponderanti forze corazzate e di fanteria nemiche. Nonostante la notevole inferiorità numerica e di armamento, affrontava con i suoi uomini il combattimento, riuscendo col suo coraggio, la sua azione personale di comando, il suo valore, la sua preparazione tecnica e il suo spirito di iniziativa, a disimpegnarsi brillantemente e raggiungere, dopo aver subito elevate perdite di uomini e di automezzi, la zona prestabilita. Luminoso esempio di coraggio, spirito di sacrificio e sprezzo del pericolo.” 

Nel contempo, non appena arrivato a Roma, aveva ripreso gli studi universitari, conseguendo la Laurea in Giurisprudenza. Successivamente, superò gli esami di Stato per Procuratore Legale, ma non poté, peraltro, iscriversi all’Albo dei Procuratori Legali, essendo Ufficiale Effettivo dell’Esercito.

In quel periodo, inoltre: prestò servizio presso i Distaccamenti, dipendenti dal suo Autogruppo, prima a Ugovizza presso Tarvisio (Udine) e poi a Casarsa della Delizia (Pordenone), impegnati nel recupero e smistamento di autoveicoli dislocati in Austria e ceduti dall’Esercito Americano a quello Italiano (dicembre 1947/maggio 1948); frequentò un Corso di Addestramento sulla Motorizzazione e da Istruttore presso una Scuola dell’Esercito U.S.A., dislocata a Eschwege (Germania), nel periodo settembre-novembre 1948.

L'esperienza in Somalia

Il 26 agosto 1949, fu trasferito, a domanda, al Comando del Corpo di Sicurezza della Somalia (ex colonia, data in mandato fiduciario all’Italia dall’O.N.U.) e assegnato all’Autoreparto Misto “S” in approntamento. Prestò servizio presso questo Reparto prima a Bari (agosto-novembre), poi a Caserta (novembre-marzo); durante questi mesi, l’Unità venne costituita nei mezzi e nel personale (Cap.no Comandante Tombesi; V. Comandante, Ten. Secchi; Com.ti di Autosezione, Ten. Pizzillo, S. Tenenti Barbagallo, Menna , Gafforio).

Il 5 marzo 1950, Bassano s’imbarcò sulla Motonave “Andrea Costa” e sbarcò a Mogadiscio il 20 marzo.

Bassano Secchi in Somalia (1950-1952).

L’Autoreparto, unica unità del Corpo Automobilistico in Somalia, veniva impiegato in tutto il Territorio da Bender Cassim (Migiurtinia) a Chisimaio (oltre Giuba) senza mai un attimo di sosta. Il 12 luglio 1950, Bassano venne promosso Capitano (con anzianità 15 marzo dello stesso anno) e il 10 marzo 1951 assunse il comando dell’Autoreparto Misto, iniziandone la trasformazione da personale nazionale (Sottufficiali e Autieri) a personale somalo. Il 3 giugno 1952, lasciò in aereo la Somalia dopo più di due anni di permanenza e rientrò in Italia.

La carriera negli anni Cinquanta e Sessanta

Il 26 ottobre 1952, finita la licenza coloniale, assunse il comando del Reparto Trasporti della Divisione “Granatieri di Sardegna” con sede a Roma - Pietralata (Caserma “Gen. Gandin”). Con questo Reparto partecipò alle Grandi Esercitazioni dell’estate 1953, le prime Grandi Manovre effettuate dopo la fine della guerra.

Il 14 gennaio 1954, venne trasferito al Ministero Difesa - Esercito in servizio presso l’Ispettorato Generale della Motorizzazione. In questo periodo fu:

-          Ufficiale Addetto alla Sezione Carburanti dell’Ufficio Autoveicoli e Carburanti (19 gennaio 1954/30 settembre 1954; Col. Belluzzi, Magg. Fabiano);

-    Prescelto, a seguito domanda, quale frequentatore del 9° Corso Superiore della Motorizzazione, superato con successo presso il Centro Studi ed Esperienze della Motorizzazione (1° ottobre 1954/30 giugno 1955; Direttore Col. SteM Noya);

-     Assegnato alla Divisione Auto, quale Addetto alla Sezione Personale Ufficiali (1° luglio 1955/30 giugno 1957; Capo Sezione, T.Col. Amendolagine);

-        Promosso Maggiore il 1° gennaio 1956;

-    Vincitore di un concorso per titoli (1° classificato) per la frequenza del Corso di S.M. presso la Scuola di Guerra (Civitavecchia): gennaio-settembre 1957, corso propedeutico con esami finali; ottobre 1957 - giugno 1958, frequenza 80° Corso Superiore di S.M. ed esami finali superati con successo; conseguita, pertanto, la qualifica di t. SG (titolo Scuola di Guerra);

-       Riassegnato alla Divisione Auto, quale Addetto alla Sezione Addestramento e ordinamento. Per un anno ricoprì anche la carica di Capo Sezione Personale Ufficiali, in sostituzione di collega in comando. Periodo dal 1° luglio 1958 al 30 gennaio 1964 (Capo Sezione: prima T.Col. Calò, poi T.Col. Calabresi);

-         Nel frattempo, promosso Ten. Colonnello il 1° gennaio 1963;

-       Trasferito, il 31 gennaio 1964, al Comando delle Scuole della Motorizzazione in Cecchignola, per effettuare il previsto periodo di comando, quale Comandante dell’Autogruppo Allievi Sottufficiali presso la Scuola Meccanici e Conduttori Automezzi (SMeCA), nella Caserma “Emanuele Filiberto di Savoia” (Comandanti: SMeCA, Col. Armando Iannace; Scuole Motori: Gen.le Manlio Timeus e, successivamente, Gen.le Sebastiano Alfonso);

-     Trasferito il 4 febbraio 1965 allo Stato Maggiore Esercito per l’Ufficio trasporti, con l’incarico, prima, di Ufficiale Addetto alla 2a Sezione (Piani) e, successivamente, Capo della 4a Sezione (Via ordinaria e Ferroviaria). Capi Ufficio: Col. Mari, Col. Felcini, Col. De Paoli. Lasciò lo S.M.E. il 21 settembre 1969, perché inviato in comando;

-          Promosso Colonnello in data 31 dicembre 1968.

Bassano Secchi, tenente colonnello.

La promozione al grado di Colonnello nel Corpo Automobilistico era allora una delle mete più ambite nelle carriera, in quanto solo una ristrettissima percentuale di Ufficiali riusciva a pervenire a tale grado. Fu, perciò, questo evento di grande soddisfazione per Bassano, evento che, peraltro, chiudeva, nello stesso tempo, un ciclo della sua vita. Ma, nel lungo periodo dopo il rientro dalla Somalia, si verificarono eventi familiari che, per Bassano, furono certamente più importanti della sua stessa carriera.

Infatti nel 1954, contrasse matrimonio con Clara Mary ONOFRI bellissima ragazza statunitense di origine italiana e, precisamente, abruzzese, figlia di un imprenditore di Yonkers nello stato di New York, con cui ebbero due figli, una femmina e un maschio.

Sfilata del 2 giugno 1964 a Roma.

Bassano, intanto, proseguiva nella sua carriera e, promosso come già detto Colonnello, il 22 settembre 1969 veniva trasferito in comando a Bologna (6a ORME - Via San Donato), ove si recò da solo, lasciando la famiglia a Roma, onde non sottoporla ad un disagevole trasferimento. Il 3 maggio 1971, peraltro, rientrò a Roma, dove assunse l’incarico di Capo Ufficio Motorizzazione dell’Ispettorato Logistico dell’Esercito.

La carriera negli anni Settanta e Ottanta

Il 31 dicembre 1973, Bassano viene promosso Maggior Generale, soddisfazione veramente grande questa, poiché a tale alto grado riusciva ad arrivare, nel Corpo Automobilistico, solo una percentuale minima di Ufficiali. 

Bassano Secchi, maggior generale, nel 1975.

Dopo il primo servizio prestato nel nuovo grado come Generale Addetto al Comando del Corpo (31 dicembre 1973 - 10 gennaio 1975), assunse l’11 gennaio 1975 il prestigioso incarico di Comandante delle Scuole della Motorizzazione e, contemporaneamente, quale Ufficiale più elevato in grado, anche il comando del Presidio Militare della Cecchignola, uno dei Presidi più importanti dell’Esercito. Le Scuole della Motorizzazione comprendevano: Scuola di Applicazione del Corpo Aut.co (Caserma Arpaia), Scuola Meccanici e Conduttori di Automezzi (SMeCA - Caserma Emanuele Filiberto), Scuola Specializzati (Caserma Ponzio), un Autogruppo di Manovra e una Officina Media; un complesso forte di circa 5.000 uomini (tale complesso, nella seconda metà degli anni ’80, subì una serie di modifiche organiche e d’impiego, trasformandosi nella Scuola Trasporti e Materiali; alla fine degli anni ’90, inoltre, anche il Corpo Automobilistico subì importanti modifiche, trasformandosi in Arma). Il Presidio della Cecchignola aveva, a sua volta, una forza di circa 10.000 uomini.

Lasciato il Comando delle Scuole della Motorizzazione e del Presidio Militare della Cecchignola in data 10 gennaio 1977, Bassano ricoprì, presso il Comando del Corpo, gli incarichi, prima, di Capo Nucleo Ispettivo e, successivamente, di Capo del 1° Reparto (Ufficio Personale Ufficiali e Sottufficiali, Ufficio Addestramento e Ordinamento, Ufficio Regolamenti) dall’11 gennaio al 31 dicembre 1981.

Il 1° gennaio 1982, Bassano, a seguito di una legge relativa agli organici dei Colonnelli e Generali dell’Esercito, viene collocato in “aspettativa per riduzione di Quadri”, posizione nella quale permane fino al 24 agosto 1984, data sotto la quale, raggiunto dai limiti di età, è collocato in congedo.

Il congedo dal servizio attivo , nel 1982.

Si concludeva così la sua carriera dopo più di 43 anni di servizio attivo.

Inoltre, il 23 maggio 1995, veniva conferito a Bassano il grado di Generale Ispettore (grado equivalente a quello di Gen. di Corpo d’Armata), in base alla legge 325/90 relativa al riconoscimento della promozione al grado superiore per i combattenti della 2a guerra mondiale.

Gli rimanevano come ricordo di questa lunga vita militare: il grado di Generale Ispettore; una promozione per Merito di Guerra; la Croce al Merito di Guerra; le Medaglie di Volontario di Guerra, della Guerra 1940-43 (con due Campagne: 1942-1943), della Guerra di Liberazione (una Campagna: 1945) e al Merito di Lungo Comando; la Croce d’Oro per Anzianità di Servizio; la Medaglia d’Oro Mauriziana e la Commenda dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana; ma, soprattutto, gli rimaneva la sicura coscienza di avere compiuto il proprio dovere verso la Patria e verso il Paese (due entità ben distinte, ma integrantesi) con entusiasmo, con profonda convinzione e con spirito di sacrificio, sempre e ovunque, in pace e in guerra.

Il medagliere del gen. Bassano Secchi.

Si apriva, per contro, l’ultimo capitolo della sua vita.

Moriva il 19 gennaio 2003, proprio il giorno del suo onomastico. Colpito da un male incurabile, sopportò la sua malattia con estrema dignità e discrezione, minato nel fisico, mai nell’animo, fino all’inevitabile epilogo.

Al funerale celebrato il 21 gennaio 2003 parteciparono, oltre parenti e amici, Autorità militari e rappresentanza d’Arma. La chiesa era gremita all’inverosimile, segno di una vita sempre spesa a servire la Patria e ad aiutare il prossimo. Gli onori militari gli furono tributati da parte di un drappello di Autieri, dovuti al suo alto grado e al passato di combattente, ma soprattutto all’ultimo rappresentante della “Vecchia Guardia” di ufficiali e gentiluomini. Palpabile fu la generale commozione, quando al termine della funzione si levarono dal trombettiere le note del “Silenzio” in onore di un vecchio soldato tanto generoso e amato.

Come da suo desiderio ora riposa nel locale cimitero di Tagliacozzo, vicino al padre, il cui esempio di virtù e coraggio fu sempre seguito con profondo affetto filiale.

 Enrico Secchi