sabato 21 novembre 2020

Il capitano Pestalozza e i fanti del 74° reggimento Brigata "Lombardia" tra Cima Dodici e il Monte Zoviello


Anche stavolta, un modesto ritrovamento cartaceo ci fornisce lo spunto per rievocare la figura di un valoroso soldato, caduto sul Monte Zoviello nel corso della Battaglia degli Altipiani, nell'estate del 1916.
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Alberto Pestalozza nacque a Rovescala, in provincia di Pavia, il 31 luglio 1891. La famiglia, originaria di Piacenza, si trovava in tale località per ragioni di servizio del padre, il cav. dott. Francesco Pestalozza, medico condotto. Quando, in seguito, questi fu chiamato come medico condotto a Stresa, tutta la famiglia si trasferì sulle belle rive del Verbano. Morta la madre, Maria Boselli, la famiglia si componeva anche dei fratelli Alessandro e dalle sorelle Gina, Dolores ed Edvige. 

Il giovane Berto - com'era chiamato affettuosamente in famiglia - frequentò il collegio Rosmini di Stresa e poi ottenne, nel 1910, il diploma in elettrotecnica presso l'Istituto Cobianchi di Intra.

Nel novembre del 1910 si arruolò nel Regio Esercito quale volontario ordinario, passando poi a frequentare i corsi per allievo ufficiale di complemento. Promosso prima caporale e poi sergente, fu nominato sottotenente con il gennaio del 1912 ed assegnato per il servizio di prima nomina al 23° reggimento della Brigata "Como", di stanza a Novara. Con tale reparto, il sottotenente Pestalozza fu mobilitato per la campagna Italo-Turca, imbarcandosi nell'agosto del 1912. Il giovane ufficiale prese dunque parte ai numerosi combattimenti che coinvolsero il reggimento in terra d'Africa, tra i quali in particolare quello di Sidi Bilal del 20 settembre 1912, nel corso del quale perse la vita il ten. col. Vittorio Gadolini, ricordato in un precedente articolo di questo blog. Rimpatriato nel dicembre del 1913, Pestalozza ottenne la rafferma e il passaggio in servizio attivo, rimanendo in forza al 23° reggimento. 

Alberto Pestalozza in grande uniforme da sottotenente del 23° regg. fanteria (coll. dell'autore).

Promosso poi al grado di tenente, in tale posizione si trovava quando, nel gennaio del 1915, fu destinato al 153° reggimento fanteria della Brigata "Novara". Il reggimento era un'unità di nuova formazione, costituita dal deposito del 23° regg. fanteria per inquadrare i coscritti richiamati dal congedo. Con il 153°, il tenente Pestalozza raggiunse il fronte alla vigilia della dichiarazione di guerra del 24 maggio 1915. Combattè, poi, per tutto l'anno nel settore dell'Altopiano di Tonezza e del Monte Coston, impratichendosi di guerra in montagna. Alla metà di novembre, la "Novara" fu trasferita sul fronte isontino, assumendo con il 22 novembre la difesa del settore di Quota 188, dal versamente destro della Val Peumica alla Selletta di Oslavia. Qui, negli ultimi giorni di novembre, il 153° fu duramente impegnato nel combattimento, nelle ultime fasi della Terza battaglia dell'Isonzo. Nel mese di dicembre, Alberto Pestalozza fu promosso al grado di capitano e trasferito al 74° reggimento della Brigata "Lombardia", schierato (con la 4^ Divisione) sempre nel settore di Oslavia. Pestalozza fu dunque posto al comando della 9^ compagnia del reggimento, con la quale fu immediatamente chiamato al combattimento, tra il 27 e il 29 novembre. Per il contegno dimostrato in questo frangente, il capitano Pestalozza fu decorato con la Medaglia d'Argento al Valor Militare, con la seguente motivazione:

"In tre giornate consecutive di combattimento, conduceva la sua compagnia con intelligenza, calma e coraggio e, vincendo successive resistenze, riusciva ad occupare stabilmente il margine di una posizione. Ferito, continuava a mantenere il comando della compagnia fino al termine del combattimento." - Oslavia, 27-29 novembre 1915
A proposito del ferimento occorsogli a Oslavia, il suo amico e collega capitano Alceste Mazzetta avrebbe così ricordato:
"Ricordo il novembre dell'anno scorso quando, sapendo il mio amico ferito ai ruderi di Oslavia, corsi a trovarlo. Era giorno di intenso bombardamento, forse il nemico preparava un attacco per riprenderci le posizioni. Trovai il povero Alberto che, zoppicando, percorreva la trincea più avanzata, teneva una mano appoggiata sulla coscia ferita, guardava sorridendo i suoi soldati come per dir loro: state tranquilli, è roba da niente, rimango qui con voi. I soldati, coi fucili a punta, rispondevano al loro Capitano con sguardi intelligenti che dicevano tutto l'affetto, la fiducia, la simpatia grande, la riconoscenza per il loro duce, che avrebbe potuto cedere il comando della compagnia e ritirarsi dal combattimento, ma preferiva soffrire pur di rimanere con loro. Sei stato ferito, Alberto? Gli chiesi. "Sì, caro Alceste, guarda (e mi mostrò la ferita). E' stata intelligente. C'è qui quel Cecchin" (e mi indicò un punto dell'antistante trincea nemica) "che oggi me ne ha già uccisi sei; non vuol vedere nessuno muoversi altrimenti spara e quasi sempre colpisce. Io ho avuto la mia; mi sono medicato alla meglio e rimango in linea fino a questa sera che devo avere il cambio". La stessa sera io con la 5^ compagnia davo il cambio alla 9^. Il povero Alberto zoppicò qualche giorno, guarì presto, non volle abbandonare il bel 74°."
Ristabilitosi, il capitano Pestalozza rimase dunque al comando della sua 9^ compagnia, con la quale trascorse il turno di riposo nella zona di Cormons, fino alla fine del mese di gennaio del 1916. Vivida testimonianza dello spirito che animava il giovane ufficiale è questo brano di lettera indirizzata ai suoi cari nel gennaio del 1916, prima di ritornare in linea:
"Miei carissimi, il vostro Alberto non conosce che una via, la via del dovere: non desidera che una cosa, l'onore per la propria famiglia, la grandezza e l'onore della Patria tanto cara a suo Papà ed a lui. Parto, augurando alle armi Italiane una grande vittoria, che conduca ad una pace lunga. Ricordatevi di me, seguitemi col pensiero. Ai parenti il mio saluto, a voi i miei baci, alla mia Italia il mio augurio. Vostro Berto"

Tornata in linea nel settore del "Lenzuolo bianco", presso Oslavia, la "Lombardia" si dedicò fino a marzo al presidio delle trincee e perlopiù a lavori difensivi. A metà marzo, la brigata eseguì un'azione dimostrativa nel settore del Sabotino, occupando alcuni elementi di trincea. A metà aprile tornò in zona di riposo, presso Santa Maria La Longa. Approfittando di questo momento di tranquillità, il dottor Pestalozza - padre del capitano - decise di raggiungere il figlio per ritrovarsi con lui, e passare finalmente qualche ora insieme: i due si accordarono quindi in modo da trovarsi a Palmanova la domenica 21 maggio, per passare una lieta giornata insieme. Il destino, però, li attendeva al varco. Lunedì 15 maggio 1916, infatti, si scatenò l'offensiva generale austriaca nel Trentino (Offensiva di Primavera o Strafexpedition). 

Situazione sulla fronte della Prima Armata (settore Altipiani) al 15 maggio 1915.

La situazione gravemente critica in cui l'esercito italiano si venne a trovare, nel giro di pochi giorni, impose il trasferimento di numerose unità dal fronte carsico al settore degli Altipiani. Tra queste, proprio la Brigata "Lombardia". Sabato 20 maggio, il capitano Pestalozza inviò dunque al padre un laconico telegramma:

"Sospendi tua partenza baci Alberto Pestalozza".
I due reggimenti della "Lombardia" arrivarono sull'Altipiano di Asiago il 23 maggio, e furono posti alle dipendenze della 34^ divisione. Lo stesso giorno, presago dei futuri avvenimenti, il capitano Pestalozza scrisse un'ultima cartolina al padre. Già il giorno successivo, 24 maggio, alla Brigata fu infatti ordinato di entrare in azione, operando nei giorni seguenti contro le posizioni di Monte Cucco di Portule, Monte Zoviello e Cima Dodici, sulle quali il nemico stava nel frattempo avanzando avanzato. Circa l'intervento della Brigata "Lombardia" nel settore dell'Altipiano di Asiago, conviene riportare il giudizio che ne avrebbe lasciato il gen. Pompilio Schiarini (in L'offensiva austriaca nel Trentino):
"In questo momento sull'altopiano di Asiago operavano in prima linea tre divisioni nemiche. A fronteggiarle non erano rimasti che i laceri avanzi della 34^ divisione. Ad essi si aggiunse in quei giorni la Brigata Lombardia (73° e 74°, gen. Bonaini), proveniente dall'Isonzo, con due piccoli battaglioni bersaglieri ciclisti, e più tardi il 153° e 154° (brigata Novara); ma anche questi rinforzi - accorsi in fretta, in non buone condizioni di equipaggiamento per la montagna e non orientati con l'occhio e con lo spirito a quell'aspro terreno - non furono in grado di mutare la situazione, assai oscura e pericolante."

 

Dettaglio schieramento della 34^ Divisione al 15 maggio 1916.

I bravi fanti della "Lombardia", in quelle circostanze così difficili, fecero però tutto quanto ci si poteva attendere da loro, e molto di più. Essi dovevano avere piena coscienza del momento di estremo pericolo in cui la Patria si trovava, e del fatto che anche dal loro comportamento sarebbe dipesa la tenuta del fronte degli Altipiani, e la salvezza della pianura veneta e lombarda. Con questo stato d'animo, nonostante i cattivi presupposti menzionati dal gen. Schiarini, la 9^ compagnia del 74° si apprestava alla battaglia. Essa era inquadrata nel III battaglione, al comando del maggiore Filiberto Paris, da Pinerolo. Accanto al capitano Pestalozza vi erano i suoi sei subalterni, tutti giovani sottotenenti: il s.ten. Giovanni Battista Aiuti, classe 1893, da Sezze (Roma); il s.ten. Adolfo Berti, da Foggia; il s.ten. Adolfo De Angelis, il s.ten. Orazio Lega, il s.ten. Luigi Pontieri e un altro di cui non è stato possibile accertare il nominativo [1]. L'obiettivo era quello di tentare un contrattacco fulmineo, per scacciare il nemico da alcune posizioni poste tra Cima Dodici (o Cima XII, più alta vetta delle Prealpi vicentine, a quota m 2336 slm)e il Monte Zoviello (m 1700 slm)[2]. La compagnia, così, si lanciò all'attacco e, dopo aspra lotta, riuscì ad occupare un fortino facendone prigionieri i difensori. Immediatamente, però, gli Austro-ungheresi tornarono in forza al contrattacco. Il combattimento del 25 maggio sarebbe stato così descritto:

"a Cima Dodici la 9^ compagnia del 74° mandata a contenere il temerario irrompere del nemico nelle agognate pianure nostre, dopo un'eroica resistenza di sette ore di aspro sanguinosissimo combattimento, tentato un supremo sforzo disperato, dovette cedere, sopraffatta dal formidabile pullulare dei nemici da ogni dove, lasciando arrossate le nevi dal latino sangue gentile, poiché di morti o di feriti era cosparso il suolo" [3]
. La 9^ compagnia, dunque, soccombette integralmente all'avversario: in particolare, si persero notizie di tutti gli ufficiali. Il capitano Pestalozza, insieme ai suoi colleghi, fu dichiarato disperso. Nei giorni successivi, però, iniziarono a giungere comunicazioni dai campi di prigionia austro-ungarici. Nella famiglia Pestalozza doveva, probabilmente, essere ancora viva la speranza che il loro Berto fosse vivo, ed in cattività. Purtroppo, nei giorni successivi il s.ten. G.B. Aiuti così scrisse a suo padre (che ne informò il dottor Pestalozza), dalla prigionia:
"il mio capitano [...] cadde ferito insieme con me; cademmo, insieme, però egli fu ferito alla testa perciò è morto; io fui ferito alla gamba, così spero di cavarmela con un po' d'ospedale". [4]
Ancora, il sottotenente Orazio Lega scrisse direttamente al dottor Pestalozza una lettera giuntagli il 17 luglio:
"Il 25 maggio fui preso prigionierio ed appena dietro le linee austriache trovai il cadavere del povero figlio suo sopra una barella portata da due portaferiti austriaci. Lo portarono dentro una baracca dove gli tolsi tutta la roba che aveva in tasca rilasciandone ricevuta a un portaferiti austriaco. [...]"
Il capitano, dunque, era morto combattendo. Circa l'andamento dell'azione generale dispiegata dalla Brigata "Lombardia", traiamo ancora dall'opera del gen. Schiarini:
"Due battaglioni del 74°, dopo una tenace difesa e molte perdite, ripiegano il 25 dalle pendici di Monte Caldiera su Monte Cucco delle Mandrielle; poi, in ordine, su Monte Zoviello, donde la sera stessa tentano di contrattaccare su Monte Cucco. Un attacco del 73°, diretto su Cima Undici, non riesce. [...] L'indomani, 26, la Brigata Lombardia è fatta segno ad un nuovo attacco. Il Monte Zoviello è perduto ed invano si combatte per riconquistarlo: le gravi perdite (fra cui quella del comandante il 74°, col. Guastoni) e la forza delle posizioni e delle artiglierie nemiche, non controbattute, arrestano l'attacco."
Nei giorni successivi, sempre combattendo strenuamente, la "Lombardia" ripiegò dapprima sulla linea Monte Zebio - Monte Colombara e poi, il 30 maggio, su quella Monte Valbella — Pennar. Nelle settimane successive, sarebbe fortunatamente iniziata una nuova fase della grande battaglia, grazie alla quale l'impeto degli attaccanti sarebbe stato arginato dalla truppe italiane. Il fallimento dell'offensiva generale austro-ungarica, se si concretizzò solo con il mese di giugno, fu dovuto anche al sacrificio delle truppe che si immolarono, pur infruttuosamente, a partire dalla seconda metà di maggio. Tra questi, proprio i baldi fanti della Brigata "Lombardia", ed in particolare il capitano Pestalozza, il s.ten. Aiuti, il magg. Paris (caduto in combattimento il 3 giugno) e lo stesso colonnello Carlo Guastoni, comandante del reggimento (caduto il 26 maggio sempre sul Monte Zoviello). Alla memoria del capitano Pestalozza fu conferita la Medaglia di Bronzo al Valor Militare, con la seguente motivazione:
"Attaccò arditamente un fortino nemico riuscendo ad occuparlo ed a farne prigioniero il presidio. Contrattaccato, oppose accanita resistenza, finché, ridotto agli estremi mentre tentava di aprirsi un varco attraverso i nemici, colpito a morte, cadde da prode sul campo." - Monte Zurillo [rectius, Zoviello], 25 maggio 1916
La famiglia del bravo capitano - in particolare per opera del padre, dottor Francesco Pestalozza -, affranta dal dolore, trovò il modo di commemorare degnamente il loro Berto. Il 25 settembre 1916, furono organizzate solenni esequie in suo suffragio, con la partecipazione di un gran numero di autorità civili e militari, oltre che della popolazione della bella cittadina. In occasione del primo anniversario della morte del capitano, il 25 maggio 1917, sempre il padre fece inoltre pubblicare un prezioso opuscolo dal titolo "Lauri e cipressi", raccogliendo pensieri e scritti relativi al figlio, e dal quale sono tratte gran parte delle notizie riportate in questo contributo. Il dottor Pestalozza vi riportò in apertura una struggente dedica al figlio:
"ALBERTO MIO / CHE SULLA VIA DEL DOVERE / ARROSSATA DEL SANTO TUO SANGUE / ONORANDO LA FAMIGLIA LA PATRIA / CADESTI / NELL'ANELITO DI UNA GRANDE VITTORIA / A TE / QUESTO ONORE DI PIANTI".
In chiusura di questo contributo, riportiamo una breve composizione che il sott. Nino Bazzetta volle dedicare alla memoria del capitano Pestalozza:
"Madonna morte che dispensi la gloria / bruna sorella del conforto / che ravvivi nell'avvenire la storia / nelle funebri stele di nostra terra / scrivi col ferro temprato / il nome di ALBERTO PESTALOZZA / capitano di milizia italica/ spento sul campo / nel sacrificio propiziatore / ai vindici Iddii della patria / fior d'ogni arme nostra / irradiante luce d'esempio animatore / sulla giovane Italia pugnante. / O foresta del monte conteso / sulla tomba del prode stormente / il vento della vittoria / per valli e pianori redenti."

A cura di Niccolò F.

NOTE 

[1] Il dottor Pestalozza, nell'opuscolo commemorativo, afferma "di sei sottotenenti - non v'erano tenenti - cinque caddero più o meno gravemente feriti emulandosi nel prode compimento dell'aspro dovere". [2] Vi è incertezza sul luogo preciso in cui avvenne il combattimento, in considerazione del fatto che i resoconti parlano di "Cima Dodici", mentre il riassunto storico della Brigata "Lombardia", ed anche le motivazioni delle medaglie al valore, fanno appunto riferimento al "Monte Zoviello" (erroneamente denominato "Zurillo"). [3] Lettera dell'avv. Alfredo De Angelis, padre del s.ten. Adolfo, al dottor Pestalozza. [4] Questo stralcio e gli altri brani di lettere riportati in questo articolo sono tratti dall'opuscolo commemorativo "Lauri e cipressi" fatto pubblicare dal dottor Pestalozza in occasione del primo anniversario della morte del figlio, il 25 maggio 1917. 

 BIBLIOGRAFIA

 - AA. VV., L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), Vol. IIbis, Roma, Libreria dello Stato.
- Annuario Militare del Regno d'Italia, varie annate.

- Francesco Pestalozza, Lauri e cipressi - nel primo anniversario del capitano Alberto Pestalozza, Intra, 1917.
- Riassunti storici dei Corpi e Comandi, Vari Volumi, Roma, Libreria dello Stato.

venerdì 25 settembre 2020

Il colonnello Vero Wilmant, un bersagliere tra i fanti sulle Dolomiti

In uno dei nostri ultimi articoli, ci siamo sbizzarriti nel cercare di attribuire un bel berretto al colonnello che lo aveva indossato nel periodo della Prima guerra mondiale: nonostante gli sforzi profusi, l'identificazione, in quel caso, è stata solo parziale. I piccoli oggetti che presentiamo in questo breve articolo, invece, ci hanno reso assai facile il compito: il piccolo lotto è, infatti, nominativo. Vediamoli nel dettaglio, cercando di raccontare qualche cosa del loro antico proprietario: il colonnello Vero Wilmant.
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Gli oggetti che qui vi presentiamo sono un fregio e due medagliette reggimentali. Il fregio è - meglio - un trofeo da berretto per ufficiale di fanteria del modello introdotto nel 1895; è in filo metallico argentato, e cucito su panno turchino. Dunque, doveva guarnire un berretto del modello adottato nel 1891, e poi confermato nel 1903. Esattamente come quello di cui abbiamo trattato in questo nostro articolo: "Un berretto per un colonnello - Emilio Ravanelli".
Ancora, il fregio reca nel tondino la cifra "53", distintiva appunto del 53° reggimento fanteria della Brigata "Umbria", e presenta tracce evidenti, per quanto scarse, del panno rosso scuro (detto robbio ) del quale era sottopannato [1]. Ciò denota che il fregio doveva essere montato sul berretto di un ufficiale comandante il predetto 53° reggimento fanteria. Ma di quale, tra i tanti che il reggimento ebbe tra il 1861 e - sigh! - il 1993?
La risposta ci arriva dagli altri due oggetti che, per oltre un secolo, hanno fatto compagnia in qualche cassetto al fregio in questione: si tratta, come già detto, di due "baverini", ovvero un particolare tipo di medaglie reggimentali, in metallo - argento, in questo caso - e smalti policromi, molto in voga - in specie tra gli ufficiali - negli anni precedenti e in quelli a cavallo della Grande Guerra. Gli esemplari in questione provengono, nientemeno, dalla prestigiosa gioielleria Jacoangeli di Napoli, eccellenza dell'arte orafa partenopea, come rivelano i marchi al verso. Le due medagliette, curiosamente, sono identiche, ed entrambe riferite al 12° reggimento bersaglieri.


Al verso, come d'uso, recano inciso il nome del loro antico proprietario, al quale probabilmente dovevano essere stati donati (dai colleghi del reparto, ad esempio): il tenente colonnello cav. Vero Wilmant. Con una rapida ricerca, scopriamo che il Wilmant, promosso colonnello, fu comandante proprio del 53° reggimento fanteria della Brigata "Umbria": per meglio dire, fu il comandante che portò il reparto al battesimo del fuoco, guidandolo nei primi due intensi mesi della Grande guerra. Il cerchio si chiude, e l'attribuzione è univoca. Di seguito, dunque, cercheremo di raccontare qualcosa di questo ufficiale: ciò sarà possibile anche grazie alla cortese collaborazione dei discendenti del colonnello Wilmant, che ci hanno contattati dopo aver letto la prima versione del presente articolo.
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Vero Wilmant nacque a Lodi il 26 novembre del 1861. Il padre, Enrico Wilmant, era figlio di Claudio Wilmant, principale stampatore lodigiano della metà dell'Ottocento, poi titolare della fiorente Tipografia Wilmant & Figli. Provenienti da Milano, i Wilmant discendevano da una famiglia giunta dalla Francia nel Settecento. Enrico Wilmant, membro della Carboneria, si era dedicato attivamente al sostegno della causa risorgimentale, stampando clandestinamente opuscoli di propaganda patriottica e libri di Mazzini e partecipando anche alle Cinque Giornate di Milano nel 1848. Anticlericale, vedendo nel Papa Re un ostacolo all'Unità d'Italia, Enrico Wilmant impose ai numerosi figli nomi che non fossero di santi: tra i fratelli di Vero vi era, infatti, anche Tieste Wilmantil quale ebbe una fortunata carriera quale cantante lirico. Se ne ricorda, in particolare, l'interpretazione nel ruolo di Marcello nella prima dell'opera La bohème di Giacomo Puccini al teatro regio di Torino la sera del 1 febbraio 1896.

Cresciuto, dunque, in una famiglia agiata e di forte tradizione patriottica, il giovane Vero scelse di perseguire la carriera militare. 
Così, all'età di soli sedici anni, chiese ed ottenne - grazie alla dispensa reale - di essere ammesso alla Scuola militare di Modena, in anticipo rispetto all'età minima (allora fissata ai diciassette anni). Il 24 aprile 1881, ancora diciannovenne, fu nominato sottotenente nell'arma di fanteria. Fu, dunque, assegnato ai Bersaglieri, corpo al quale Wilmant avrebbe legato tutta la propria carriera militare.
Gli annuari del Regio esercito ci aiutano a tracciarne le vicende successive: promosso nel 1883 al grado di tenente,  nel 1889 prestava servizio presso il 9° reggimento Bersaglieri. Nel 1890 fu comandato, per un certo periodo, presso il Ministero della Guerra, a Roma. Nel 1898, frattanto promosso al grado di capitano, era in servizio presso il 6° reggimento Bersaglieri in Asti.
Nel 1903 fu anche nominato cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia.
Nel 1906, promosso al grado di maggiore, risulta in servizio presso l'8° reggimento Bersaglieri.
Con R.D. 31 agosto 1910, Vero Wilmant fu, dunque, promosso al grado di tenente colonnello. Nel 1913, l'annuario riferisce che il ten. col. Wilmant prestava servizio presso il 12° reggimento Bersaglieri, avente sede a Milano. Wilmant era l'unico tenente colonnello del reggimento, alle dipendenze del col. Giuseppe Maiorca [2].
A questo periodo trascorso a Milano, che durò sino a tutto il 1914, datano quindi le due medaglie reggimentali dalle quali prende le mosse questo articolo. Esse furono, molto probabilmente, un dono dei colleghi ufficiali del 12° Bersaglieri.

Il 1° febbraio del 1915, infine, Vero Wilmant fu promosso al grado di colonnello. Con tale promozione, gli fu dunque attribuito il comando di un reggimento: si trattava del 53° reggimento Fanteria della Brigata "Umbria". Il reggimento aveva sede a Vercelli e reclutava coscritti, tra gli altri, anche dal distretto militare di Lodi: Vero Wilmant si trovava, così, a comandare anche numerosi suoi concittadini. Assumendo il comando (e passando in fanteria), Wilmant si fece confezionare una nuova uniforme e, sul berretto, fece cucire il bel fregio che abbiamo presentato all'inizio dell'articolo. Wilmant, dopo quasi trentacinque anni di servizio nei Bersaglieri, si trovava infine a dover guidare un reparto di fanteria di linea.
Vero Wilmant in borghese, dopo il congedo
(per gentile concessione archivio famiglia Wilmant-Secchi).

Si era, in quelle settimane, al termine della fase preliminare con la quale il Regio esercito veniva posto sul piede di guerra (c.d. mobilitazione rossa), prodromica alla mobilitazione, la quale sarebbe iniziata il 1° marzo 1915. Il colonnello Wilmant, dunque, assumeva il comando del 53° fanteria in un momento assai delicato, e cruciale per il successivo impiego bellico del reparto. In effetti, l'azione di comando del Wilmant avrebbe segnato i primi tre mesi di campagna del reggimento: mesi che, proprio in ragione del settore in cui il reggimento fu destinato, si sarebbero rivelati particolarmente complicati.
La Brigata "Umbria" fu, infatti, immediatamente destinata al fronte dolomitico, inquadrata nella Quarta Armata. Già all'inizio delle ostilità, il 24 maggio 1915, i reparti della Brigata - alle dipendenze della 2^ Divisione - si trovavano sui passi cadorini di confini.
Ai primi di giugno, il 53° reggimento si portò su posizioni avanzate ad est di Cortina d’Ampezzo, ove ebbe il suo "battesimo del fuoco", mercé le cannonate del forte austriaco di Son Pauses. Traiamo il seguito della narrazione direttamente dal riassunto storico della Brigata "Umbria":
"[…] l'8 giugno, la 2a divisione muove all’investimento dello sbarramento di Son Pauses e il 53° fanteria concorre all’azione puntando da Val Grande contro la fronte Podestagno - S. Blasius; ma il fuoco dei trinceramenti nemici, robusti e in piena efficienza, ne arresta l’avanzata sulle posizioni del Lago Nero, dove il reggimento sosta e si rafforza.
Fino a luglio, quindi, si svolge una guerriglia di pattuglie e di ricognizioni, dirette specialmente alla Croda dell’Ancona, lungo la grande strada d’Alemagna, ed oltre il Lago Bianco, fra le quali una, con carattere più decisamente offensivo, alla Punta del Forame.
Il 28 luglio la brigata si trasferisce nel contiguo settore dell’Ansiei; il 53° occupa Forcella Bassa di Monte Piana ed il 54° una posizione avanzata in Val Popena. Tale dislocazione è presa in vista del compito affidato alla "Umbria" nelle imminenti operazioni offensive contro lo sbarramento di Landro, per le quali il 53° ha per obbiettivo la conquista di Monte Piana, mentre il 54° deve favorire il compito principale avanzando in Val Popena; le azioni cominciano il 3 agosto, ma non possono progredire con lo slancio e nella profondità desiderata perché le posizioni austriache, molto forti per natura, ben presidiate e organizzate, oppongono ostacoli insuperabili; la lotta si stabilizza assumendo talvolta anche carattere difensivo, soprattutto per i violenti ostinati contrattacchi avversari sul Monte Piana.
Però l’11 agosto va noverata come bella e gloriosa giornata per la "Umbria"; due compagnie del 54°, spintesi lungo il costone occidentale di Monte Piana, dopo aspra lotta, mettono piede in alcuni trinceramenti nemici, catturando una quarantina di prigionieri. Il valore delle posizioni conquistate è confermato dalla reazione del nemico, che nei giorni 12 e 13 tenta di ritoglierle, ma inutilmente, perché i suoi ripetuti attacchi s’infrangono contro la valorosa resistenza dei bravi fanti."[3]

Le vicende della metà di agosto, evidentemente, influirono in qualche modo sulla decisione dei comandi superiori di trasferire il colonnello Wilmant: egli fu, infatti, chiamato ad assumere il comando dell'8° reggimento Bersaglieri, operante sempre nel settore dolomitico. Il 53° rimase per circa un mese privo del titolare, sino alla nomina, il 5 settembre, del col. Alessandro Curti, il quale avrebbe retto il comando molto brevemente, fino al 20 ottobre.

Per Vero Wilmant, il trasferimento ai Bersaglieri (decorrente dal 25 agosto) dovette costituire un po' il coronamento della propria carriera: dopo una vita passata in caserma insieme ai "fanti piumati", si trovava infine a comandarne un reparto mobilitato, su un fronte assai delicato - anche se poco atto alle imprese bersaglieresche - quale quello delle Dolomiti.

Dal 20 agosto, l'8° Bersaglieri si trovava dislocato tra la Val Marzon (comando e V battaglione), Cima Tre Croci (XXXVIII Battaglione) e Pian di Cengia (XII Battaglione). Col 1° settembre, il reggimento passa alle dipendenze della 2^ Divisione, alternando proprie compagnie alla forcella Lavaredo e alla forcella Cengia. Di seguito, il colonnello Wilmant, quale comandante del reggimento, assunse il comando della difesa del sottosettore, alle dipendenze della Brigata "Marche" (55° e 56° regg. fant.). La situazione rimase alquanto statica sino al 31 ottobre, quando una cospicua colonna austro-ungarica attaccò di sorpresa e conquistò le posizioni del Sasso di Sesto. L'intervento dei rinforzi italiani riuscì, però, a scacciare il nemico dalle posizioni. Nuovi tentativi nemici furono bravamente rintuzzati dai bersaglieri nei giorni 2 e 28 novembre.
Dal 14 novembre, però, il colonnello Wilmant aveva lasciato il comando del reggimento: esso era stato assunto, dal giorno successivo, dal suo parigrado col. Augusto Rigault de la Longrais, che lo avrebbe mantenuto a lungo, sino al marzo del 1917. Difficile dire se alla base di tale decisione dei comandi superiori vi fossero solo considerazioni "pensionistiche" circa la personale posizione del Wilmant, o valutazioni sulla sua azione di comando. Va detto che la poca attività operativa del reggimento, nel corso del pur breve comando del Wilmant, farebbe forse propendere per la prima alternativa.

In ogni caso, sollevato dal comando, il col. Wilmant trascorse probabilmente i mesi successivi lontano dal fronte, o addetto ad attività sedentarie. Infine, con decreto luogotenenziale del 13 febbraio 1916, il colonnello Wilmant fu posto  a riposo per anzianità di servizio, a decorrere dal 1° marzo, e collocato nella riserva della Divisione militare di Milano (3^). All'età di cinquantacinque anni, così, lasciava il servizio attivo, nel bel mezzo della guerra, e alla vigilia dell'offensiva generale lanciata dagli Austro-Tedeschi nel settore degli Altipiani.

Il colonnello Vero Wilmant si sarebbe infine ritirato a Lodi, sua città natale, dove trascorse la sua vecchiaia. Ivi spirò, il 30 aprile 1935.

Al ricordo di questo vecchio bersagliere, protagonista - per un anno della sua vita - di un capitolo della storia nazionale, dedichiamo questo breve articolo.

Si ringraziano i discendenti di Enrico Wilmant per la cortese disponibilità nel fornirci notizie e immagini circa il colonnello Vero e la loro illustre famiglia.


A cura di Niccolò F.

NOTE

1. La sottopannatura del tondino è stata ripristinata dal sottoscritto.

2. Annuario militare del Regno d'Italia, anno 1913.

3. Riassunto storico della Brigata "Umbria", op. cit., anno 1915.

BIBLIOGRAFIA

- AA. VV., L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), volumi vari, Roma, Libreria dello Stato.
- Annuario Militare del Regno d'Italia, varie annate.
- Riassunti storici dei Corpi e Comandi, Vari Volumi, Roma, Libreria dello Stato.

martedì 28 luglio 2020

Aiuto alla datazione delle CDV attraverso le medaglie

In alcuni articoli passati ci siamo occupati della datazione di uno scatto partendo dai particolari delle divise. Oggi invece vogliamo concentrarci sul decennio 1861-1871 quando, a parte alcune mode che segnavano l'estetica soprattutto dei copricapi, le uniformi rimasero sempre simili e un ausilio alla datazione può essere dato dallo studio delle medaglie al petto dei soggetti ritratti.
Ecco quindi qualche piccolo suggerimento, che speriamo possa esservi d'aiuto.

- Medaglie in versione ridotta (o mignon): Ante 1865

Questa tipologia di medaglie non sono comuni da vedere in foto poichè non erano oggetto di regolamenti militari, ma frutto di mode importate dall'estero.
La presenza di tali decorazioni permette di collocare lo scatto anteriormente al 1865 poichè, con nota n.64 del 12 Aprile 1865, il ministero della guerra emanava la seguente direttiva:

E' assolutamente vietato ai militari, quando sono in divisa, di portare decorazioni o medaglie di dimensione diversa da quella d'ordinanza, stabilita dai rispettivi decreti d'istituzione
Le autorità militari cureranno la stretta osservanza della presente disposizione.


Capitano dei bersaglieri con medagliere in versione ridotta

Particolare che permette di apprezzare meglio il medagliere

- Nastrini: Ante 1865
Sebbene oggi e da inizio '900 di uso molto comune, perchè permettono di avere divise più "leggere",  anch'essi non erano previsti dai regolamenti.
In questo caso però non ho trovato circolari in merito, sebbene l'usanza sembra sparita insieme a quella delle mignon.
L'unico accenno lo si trova nel R.D. che istituisce la medaglia commemorativa delle guerre d'indipendenza, che vedermo dopo, dove all'art.4 è riportato che:

Il nastro non può essere portato disgiunto dalla medaglia


Gruppo di ufficiali del 41° Reggimento Fanteria

Particolare che permette di notare il solo nastrino indossato sottotenente a sinistra, e le medaglie in versione ridotta dell'ufficiale si destra.

- Medaglia commemorativa delle guerre d'indipendenza: Post 1865

Questa medaglia, riconoscibile anche per le caratteristiche fascette che spesso la accompagnano, è forse la più comune da vedere in fotografia.
Venne istituita con R. Decreto del 4 Marzo 1865 e, cosa importante per la datazione, come riportato nell'art.10 della circolare n.9 del 9 marzo 1865 [1] ed andò a sostituire quasi tutte le medaglie precedenti:

Appena siano distribuite ai Corpi le nuove Medaglie colle relative fascette, i Comandanti dei Corpi cureranno a che cessi assolutamente l'uso delle altre Medaglie Nazionali Commemorative. Le sole medaglie Commemorative che rimangono autorizzate pei militari dell'esercito regolare sono:

- La medaglia dei Mille di Marsala;

- La medaglia di S. Elena;
- La medaglia di Crimea 1855-56;
- La medaglia Ottomana;
- La medaglia Francese del '59;

Anonimo capitano di fanteria. Il medagliere è composto, da sinistra a destra, dalla medaglia commemorativa delle campagne d'indipendenza in oggetto, della commemorativa di Crimea e della commemorativa Francese della campagna del '59.



- Ordine della Corona d'Italia: Post 1868

Questo ordine cavalleresco venne istituito con R. Decreto del 20 Febbraio 1868 

Anonimo maggiore di fanteria con un ricco medagliere. Indicato col numero 1 il cavalierato della corona d'Italia 

A cura di
Arturo E.A.

Note:

[1] Ministero della Guerra - Circolare n.9, Torino 9 Marzo 1865 Istruzioni per l'esecuzione del R. Decreto in data 4 Marzo 1865, col quale venne istituita una medaglia commemorativa delle guerre per l'Indipendenza e l'Unità d'Italia;

Bibliografia:
- Giornale Militare Ufficiale, Edito dal Ministero della Guerra - Annate Varie

giovedì 2 aprile 2020

Un berretto per un colonnello - Emilio Ravanelli

Spesso abbiamo tentato di raccontare, grazie ai nostri articoli, storie di combattenti attraverso oggetti a loro appartenuti (come nel caso del capitano Paolo Ballatore e del tenente Antonio Depoli) oppure comunque a loro direttamente riferiti, quali decorazioni al valor militare alla memoria (nel caso, tra gli altri, del capitano Bartolomeo Gurgo) o diplomi (come nel caso del sottotenente Giuseppe Vittone).
Ciò è quello che avremmo desiderato fare anche con il presente articolo, che prende le mosse, ancora una volta, da un oggetto. Si tratta, stavolta, di un berretto da colonnello comandante di un reggimento di fanteria, secondo il modello regolamentato nel 1895 e confermato con l'istruzione del 1903. Il copricapo è stato recentemente recuperato dall'autore in condizioni…pietose, e sottoposto a un delicato restauro che, senza aggiungere né togliere alcun elemento dal medesimo, lo ha riportato, almeno parzialmente, alle forme (non diremo allo splendore) originale.

Berretto da colonnello comandante del 140° regg. fanteria della Brigata "Bari" (coll. dell'autore).
Il berretto, tuttavia, ha una particolarità: appartenne, cioè, ad uno dei comandanti del 140° reggimento Fanteria della Brigata "Bari", come rivela la cifra nel tondino del fregio frontale. Un elemento interessante, quando si consideri che tale reparto esistette solo dal 1915 al 1919. Fu, dunque, un reparto che legò le proprie vicende unicamente alla Prima guerra mondiale.
Dettaglio del trofeo da berretto per l'arma di fanteria, sottopannato in robbio.
La Brigata "Bari" – formata dal 139° e 140° reggimento fanteria – costituiva, infatti, una brigata di fanteria di Milizia Territoriale: era, cioè, tra quelle unità che, secondo l'ordinamento dell'esercito italiano allora vigente, non esisteva in tempo di pace, ma era invece destinata ad essere costituita in caso di mobilitazione, inquadrando coscritti richiamati dal congedo.
I due reggimenti della "Bari", nello specifico, furono mobilitati (i.e., costituiti) dai depositi di due reggimenti di esercito permanente. In particolare, il comando di brigata e il 139° reggimento furono costituiti dal deposito del 10° reggimento della Brigata "Regina" con sede a Bari , mentre il 140° fu mobilitato dal deposito del 47° reggimento della Brigata "Ferrara", avente sede a Lecce.

La costituzione del 140° avvenne, secondo il riassunto storico, il 1° gennaio del 1915. Al termine del conflitto, con il riordinamento delle forze armate conseguente alla smobilitazione, anche la Brigata "Bari" fu sciolta, e il 140° reggimento fu disciolto nel settembre del 1919 [1].
Cartolina illustrata della Brigata "Bari".
Come si può dedurre dalla sua breve vita, il reggimento, nel corso dei quattro anni di campagna, ebbe ben pochi comandanti. Questa la cronotassi dei titolari del reparto:
  • col. Giovanni Battista Servici, da Roma, dal 24 maggio al 24 agosto 1915;
  • ten. col. Giovanni Gotelli, dal 28 agosto al 4 ottobre 1915;
  • col. Emilio Ravanelli, dal 6 ottobre 1915 al 21 luglio 1916;
  • ten. col. Francesco Tomasuolo, dal 22 luglio all'11 settembre 1916;
  • col. Giuseppe Solaro, dal 24 settembre al 25 ottobre 1916;
  • col. Enrico Ferrari, dal 1° novembre al 10 dicembre 1916;
  • ten. col. Ernesto Signori, dall'11 dicembre 1916 al 20 giugno 1917;
  • col. Eugenio De Vecchi, dal 23 giugno al 31 agosto 1917;
  • ten. col. Efraim Campanini, da Pieve di Cento, dal 1° settembre al 25 ottobre 1917;
  • ten. col. Pietro Bonami, da Firenze, dal 28 ottobre 1917 al termine della guerra.

Il proprietario del berretto nelle nostre mani, dunque, si nasconde evidentemente tra gli ufficiali appena menzionati.
Bisogna poi svolgere alcune riflessioni.
Anzitutto, trattandosi di un berretto che ci è pervenuto, lungo cento anni, intatto nei suoi attributi (appunto, propri di un colonnello comandante del 140° fanteria) ne consegue che il suo antico proprietario non dovette ricoprire, successivamente al periodo trascorso al comando del reparto in discorso (il 140°) alcuna altra carica di pari grado: diversamente, avrebbe provveduto a mutare, semplicemente, le cifre nel tondino, adattandole al nuovo reggimento.
Laddove, per ipotesi, avesse cambiato corpo (per esempio, venendo trasferito ai bersaglieri), è assai probabile che - come d'uso al tempo - avrebbe fatto sostituire tutte le metallerie (gallone, galloncino e bottoni), nonché le filettature, anziché acquistare un nuovo berretto. Tale è il caso, in particolare, del col. Servici che - esonerato dal comando del 140° il 12 agosto 1915 - avrebbe poi comandato il 3° Regg. Bersaglieri sul fronte dolomitico.
Da questa semplice osservazione si trae in definitiva che l'originale proprietario del berretto, ceduto il comando del 140° reggimento, dovrebbe alternativamente: essere stato promosso al grado superiore (tenente generale); essere stato posto a riposo; essere deceduto.
Orbene, da una rapida analisi dei profili degli ufficiali menzionati sopra, si trae anzitutto che nessuno di loro cadde in combattimento.
Si aggiunga anche che pare assai improbabile che, in tempo di guerra, ci si facesse confezionare un berretto turchino - del modello introdotto nel 1895 e confermato nel 1903 - e lo si guarnisse del fregio di un reggimento il cui comando (come nel caso del col. Gotelli, del col. Solaro, del col. Ferrari e del col. De Vecchi) fosse stato mantenuto solo per uno/due mesi.

Riassuntivamente, senza dilungarci, si dirà che, esclusi la maggior parte dei "candidati" mediante i criteri di cui sopra, restano "in lizza" due personaggi, i quali tennero consecutivamente il comando del reggimento per oltre sei mesi ciascuno.
Anzitutto, il ten. col. Ernesto Signori. Circa tale personaggio, non è purtroppo possibile dire alcunché: infatti, non se ne trova alcun riferimento sugli annuari militari rilevanti. Perciò, pare doversi concludere che si tratti di un refuso, in sede di compilazione del riassunto storico. Il personaggio dovrebbe dunque essere identificato nel ten. col. Ernesto Liguori, il quale fino all'estate del 1916 era comandante del IV battaglione del 68° reggimento della Brigata "Palermo". Appare ben possibile che egli sia stato successivamente trasferito al 140°, del quale potrebbe appunto aver ricoperto il comando dall'11 dicembre 1916 al 20 giugno 1917. Tuttavia, tale personaggio, poi promosso al grado di colonnello, avrebbe successivamente ricoperto altri incarichi di comando [2].
In secondo luogo, residua il nominativo del colonnello Emilio Ravanelli. Con riguardo a quest'ultimo, ci è stato possibile, curiosamente, reperire numerose informazioni.
A tal proposito, è bene dire che non vi è alcun elemento determinante e inequivoco – poste le premesse di cui sopra – per attribuire il berretto in discorso proprio al colonnello Ravanelli. Tuttavia, dato che siamo riusciti a ricostruire numerosi dettagli circa questa figura di soldato - la quale fu anche legata a Como, città di chi scrive -, l'occasione sarà comunque opportuna per rievocarla, insieme ai nostri quattro lettori.

Breve profilo del colonnello Emilio Ravanelli

Emilio Ravanelli nacque a San Giovanni in Persiceto, nella provincia bolognese, il 29 novembre del 1864. I suoi genitori erano Andrea Ravanelli, di professione cappellaio, e Claudia Savorini, di condizione agiata. Deciso a intraprendere la carriera militare, il giovane Emilio frequentò - probabilmente - l'Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena, ottenendo la nomina a sottotenente il 3 agosto del 1884. Ventenne, iniziava così la sua carriera da ufficiale del Regio Esercito: una carriera che avrebbe svolto integralmente nell'Arma di Fanteria, prestando servizio presso vari reggimenti, dislocati lungo tutta la Penisola.
Nel 1891, da tenente, fu in servizio a Como, presso la compagnia permanente del locale Distretto Militare (23). Promosso capitano nel 1898 [3], fu al 21° reggimento della "Cremona", per poi essere nuovamente trasferito a Como, presso il 78° reggimento della Brigata "Toscana", in quel periodo avente sede nel capoluogo lariano [4].
Grazie alla frequentazione della buona società comasca, il capitano Ravanelli dovette incontrare una giovane e fascinosa signorina, della quale rimase ammaliato: si trattava della milanese Fortunata Camagni Bolzani, in arte Lice Formen, cantante lirica. Di lei si ricorda in particolare la fortunata interpretazione di Maddalena nella pucciniana Manon Lescaut presso il Teatro Sociale di Como, nella stagione teatrale 1895-1896 [5].
I due, in breve, convolarono a nozze nel 1901 a Milano, prendendo poi dimora a Como [6], dapprima in Piazza Vittoria, e poi al num. 41 di Via Valduce. Il matrimonio coincise con la fine della carriera artistica di Lice Formen, che - per volere del marito, austero militare - abbandonò il teatro.
Nel 1902, la famiglia si allargò con la nascita di una figlia, Claudia Orsola [7].
Tuttavia, in ragione di un avvicendamento di sedi, la famiglia dovette qualche anno dopo trasferirsi a Bra, ove fu trasferito il 78° reggimento fanteria. In seguito, il capitano Ravanelli ottenne - verosimilmente dietro sua domanda - il trasferimento al 68° reggimento Fanteria della Brigata "Palermo", con sede a Milano. I signori Ravanelli vi presero dunque dimora, in un bello stabile liberty di Via Crema, in zona Porta Romana.
La moglie (a sx, all'epoca della sua carriera lirica) e la figlia (a dx, negli anni Venti) del col. Ravanelli.
Foto tratta da M. Gandini, Raffaele Pettazzoni nel primo dopoguerra, op. cit.
Nell'estate del 1911, Emilio Ravanelli ottenne la promozione al grado di maggiore, e lo stesso anno fu anche insignito del cavalierato della Corona d'Italia [7].
Gli eventi della Guerra italo-turca non scalfirono la tranquillità famigliare dei Ravanelli, dato che il maggiore non fu incluso tra le aliquote del 68° reggimento fanteria destinate in terra d'Africa.
Così trascorsero gli anni sino al fatidico 1914. In seguito allo scoppio della guerra europea, l'Italia - secondo quanto meglio illustrato in altri articoli del nostro blog -, pur in una posizione di neutralità, iniziò progressivamente la mobilitazione delle proprie forze armate.
In questo quadro, avvenne anche la costituzione di numerose unità di fanteria di Milizia Territoriale, destinate cioè ad inquadrare i coscritti richiamati dal congedo.
Tra queste, tra novembre e dicembre del 1914, vi fu anche la nuova Brigata "Milano", costituita dal 159° e 160° reggimento fanteria. Il 159°, in particolare, fu costituito dal deposito del 68° reggimento della "Palermo": tra gli ufficiali di quest'ultimo reparto destinati alla nuova unità vi fu, dunque, anche Emilio Ravanelli, il quale frattanto era stato promosso al grado di tenente colonnello.
A lui fu, dunque, affidato il comando del III battaglione del 159° reggimento fanteria [8]. Mancavano, ormai, solo pochi mesi all'intervento in guerra anche del Regno d'Italia.

La guerra: il 1915

Nel corso della primavera del 1915, dunque, di pari passo con le operazioni della c.d. mobilitazione occulta, i reggimenti delle unità neocostituite si dedicarono ad un intenso addestramento, per istruire i richiamati e amalgamare i reparti.
Nel caso della Brigata "Milano", la dichiarazione di guerra dovette sorprendere l'unità in una condizione di non sufficiente prontezza: infatti, al 24 maggio 1915, i due reggimenti si trovavano ancora a Gussago, nel bresciano, ben lontani dal fronte. L'unità – operativamente inclusa nella 35^ Divisione – con le settimane successive si avvicinò alla zona di operazioni, raggiungendo il vicentino a inizio luglio, per poi ascendere, alla metà di agosto, sull'Altopiano di Asiago. Tuttavia, fino alla metà di ottobre, i due reggimenti della "Milano" non presero parte ad alcuna operazione di combattimento. Ciò sarebbe avvenuto – in maniera, purtroppo, assai infelice – solo con il 18 ottobre 1915, quanto la Brigata avrebbe avuto il suo drammatico battesimo del fuoco tentando di espugnare le munitissime posizioni del Costone (o Trincerone) Durer. A tale data, tuttavia, il ten. col. Ravanelli aveva già lasciato il reparto: egli, infatti, era stato chiamato al comando del 140° reggimento fanteria della Brigata "Bari"
A far data dal 1° ottobre, infatti, egli era stato promosso al grado di colonnello, e destinato dunque al comando di un reggimento [9].
Emilio Ravanelli, così, rilevò il comando del reparto – dal ten. col. Giovanni Gotelli – alla data del 6 ottobre 1915. A tal proposito, è significativo notare come ad un ufficiale quale Ravanelli, che non aveva ancora preso parte ad alcuna azione di combattimento – né del resto aveva alcuna esperienza al riguardo, non avendo neppure preso parte alla Guerra italo-turca – fosse affidato il comando di un reggimento che si trovava in prima linea pressoché ininterrottamente da tre mesi. La Brigata "Bari", infatti, aveva preso parte alle sanguinose offensive estive, combattendo duramente nel conteso settore di San Martino del Carso, nelle cui trincee il reggimento si trovava al momento in cui il ten. col. Ravanelli lo raggiunse.
Tratto di fronte tenuto dal XIV C.d.A. alla vigilia della Terza Battaglia dell'Isonzo.

Nonostante la poca esperienza di guerra guerreggiata, il nuovo comandante si sarebbe rivelato all'altezza del compito. Dopo soli dieci giorni dal suo arrivo, infatti, la Brigata "Bari" sarebbe stata impegnata nelle operazioni della Terza battaglia dell'Isonzo, allorquando – insieme a tutto il XIV corpo d'armata (28a - 29a e 30a divisione) - avrebbe tentato nuovamente la conquista delle alture di S. Michele e S. Martino. A partire dal 18 ottobre, il 140° reggimento sarebbe dunque entrato in combattimento, al comando del col. Ravanelli.
Gli assalti sarebbero proseguiti fino al giorno 25, ma senza risultati di rilievo, e con altissime perdite [10]. Dopo un breve periodo di riposo, la "Bari" sarebbe tornata all'attacco il 4 novembre, facendo progressi nel settore di San Martino, pur anche stavolta a prezzo di gravi perdite [11]. Il 5 novembre, i due reggimenti tornarono a riposo, nel settore di Sevegliano - Ontagnano - Felettis - Privano, ove rimasero sino a fine anno.
Come si diceva, il colonnello Ravanelli - pur "neofita" del fronte - dovette farsi apprezzare per la propria azione di comando, tanto che - probabilmente su proposta del comandante della Brigata, Enrico Caviglia, uno dei nostri più brillanti ufficiali generali - gli fu conferita la medaglia d'Argento al Valor Militare, con la seguente motivazione:
"Con costante attività ed alto spirito militare, sprezzando ogni pericolo e portandosi sempre in primissima linea, guidò il proprio reggimento in successivi, numerosi attacchi contro forti trincee nemiche." - Carso, 18 ottobre - 9 novembre 1915.
Ritratto del col. E. Ravanelli apparso su La Domenica del Corriere per celebrare il conferimento della MAVM.
Si osservi, in proposito, che - a differenza di quanto si potrebbe pensare - la concessione di onorificenze al valor militare a ufficiali comandanti di reggimento non era, per nulla, cosa scontata: ciò, dunque, fa onore alle qualità di comandante del cav. Ravanelli. La foto riportata qui sopra, tratta da La Domenica del Corriere, è assai interessante anche dal punto di vista uniformologico: Ravanelli, infatti, indossa l'uniforme turchina secondo l'istruzione del 1903, con il berretto recante gli attributi da colonnello (gallone e tre galloncini); tuttavia, al bavero porta ancora le mostrine della sua vecchia Brigata "Palermo", non già quelle della "Bari" e neppure quelle dalla "Milano": segno che, in tempo di guerra, l'adattamento delle uniformi non era, spesso, omogeneo.
Le offensive della fine di ottobre provarono in maniera durissima i due reggimenti della "Bari", tanto che essi rimasero in zona di riposo sino al mese di marzo. Rientrata in efficienza, l'unità fu trasferita, con la metà di aprile, nel settore del Monte Sabotino, ove conseguì alcuni successi – perlopiù ad opera del 139° reggimento.

Dopo tali sforzi, la "Bari" tornò in zona di riposo fra Dobra e Sant'Andrat. Qui essa si trovava alla metà di maggio del 1916, quando fu raggiunta dalle notizie della poderosa offensiva sferrata dal nemico nel settore degli Altipiani.


Il 1916: la Battaglia degli Altipiani
La Brigata "Bari", dunque, fu tra le unità scelte per essere inviate a rinforzo delle truppe operanti sugli Altipiani: i due reggimenti furono, quindi, caricati su treni e trasferiti nel vicentino, raggiungendo il 31 maggio la zona fra Giarabassa e Bolzonella.
L'8 giugno la "Bari" fu trasferita a Cismon e il giorno dopo a Enego.
Infine, il 16 giugno, la Brigata "Bari" entrò in linea, per partecipare alla controffensiva: ad essa fu affidato il compito di superare la Piana della Marcesina e di attaccare il Monte Confinale. Il tentativo, fatto purtroppo in pieno giorno, di attraversare la piana non sortì effetto, a causa dei reticolati apprestati dal nemico. L'operazione fu ritentata il 17, e poi ancora sino al 20, ugualmente senza successi, ed alternando avanzate e ripiegamenti.
Il 25 giugno, in seguito al parziale ripiegamento degli Austro-Ungarici, il Regio Esercito riprese l'offensiva: alla Brigata "Bari" fu dunque affidato il compito di avanzare lungo la direttrice Monte Fiara - Monte Colombara - Monte Zingarella. Il 26 giugno, dopo immani sforzi, i nostri fanti riuscirono ad espugnare le posizioni di Monte Fiara, ma lo slancio degli Italiani dovette arrestarsi, a causa dei forti trinceramenti nemici. I combattimenti continuarono, furiosi, in special modo il 29 giugno e il 3 luglio, pur senza il raggiungimento di risultati di rilievo.
Il 12 luglio, infine, la Brigata "Bari" fu inviata a riposo a Fontana dei Tre Pali, alle falde settentrionali del Monte Castelgomberto: le sue perdite dal 7 giugno al 12 luglio sono di 64 ufficiali e 1855 gregari.
Le truppe della Brigata "Bari" sarebbero rientrate in linea il 20 agosto, sulle posizioni di Monte Colombara.
Al comando del 140° reggimento, però, non c'era più il colonnello Ravanelli: a far data dal 22 luglio, al suo posto fu infatti nominato il ten. col. Francesco Tomasuolo, che avrebbe guidato il reparto solo per circa un mese e mezzo.
Otto giorni dopo l'arrivo in zona di riposo, dopo aver comandato il suo reparto in condizioni difficilissime, il col. Ravanelli lasciava dunque il suo 140°: difficile affermare quale ragioni fossero alla base dell'avvicendamento. Di certo, Ravanelli non fu trasferito al comando di un altro reparto mobilitato [12]. Possibile, invece, che la causa fosse legata a eventi spiacevoli: un "siluramento" cadorniano, o magari condizioni di salute malferme, a seguito dei duri sforzi delle settimane precedenti.
Ravanelli, in ogni caso, abbandonò la linea del fronte e, nel corso dell'estate, le sue condizioni peggiorarono notevolmente. Probabilmente con l'autunno del 1916 egli si ritirò a Pallanza, amena località sul Lago Maggiore, ove sperava forse si rimettersi in salute, prendendo alloggio in una villa situata in Via alla Palude.
Così non fu: pochi mesi dopo, il 20 marzo 1917, alle due antimeridiane, Emilio Ravanelli lasciava il mondo dei vivi, a soli 52 anni, per una grave insufficienza epatica. Fu, probabilmente, sepolto nel cimitero di Pallanza.
Lasciava la moglie Fortunata, e la giovanissima figlia Claudia.
Notizia della morte del col. Ravanelli apparsa su "Il Resto del Carlino" del 23 marzo 1917,
Quali che fossero le ragioni della sua malattia, essa fu riconosciuta come dipendente "da causa di servizio": pertanto, Emilio Ravanelli figura sull'Albo d'oro nazionale dei caduti, e alla sua vedova fu corrisposta la pensione privilegiata di guerra.
Il nome del col. Ravanelli è ricordato a Milano, sul monumento ai caduti del quartiere di Porta Romana.
Alla memoria di questo soldato, dedichiamo questo articolo.

A cura di Niccolò F.




NOTE
[1] http://www.regioesercito.it/reparti/fanteria/rgt/rgt140.htm
[2] Vedasi Bollettino ufficiale del Ministero della Guerra, 4 luglio 1919, pag. 4592, che riferisce il trasferimento del colonnello Liguori cav. Ernesto, colonnello del deposito dell'80° reggimento fanteria.
[3] In G.U., anno 1891.
[4] Annuario militare del Regno d'Italia, anno 1907.
[5] Como e il Teatro, opuscolo a beneficio dei lettori de La Provincia di Como, anno 1912, p. 12.
[6] Atto di matrimonio Ravanelli - Camagni Bolzani.
[7] Le informazioni sulla famiglia Ravanelli sono tratte da M. Gandini, Raffaele Pettazzoni…, op. cit.
[8] Riassunto storico della Brigata "Milano".
[9] Decreto del Ministro della Guerra in data 21 ottobre 1915.
[10] La "Bari" perde 40 ufficiali e 1061 militari di truppa.
[11] Nelle azioni dal 28 ottobre al 4 novembre, la Brigata perdette 53 ufficiali e 1529 militari di truppa.
[12] Ciò si desume dal controllo dei riassunti storici delle altre brigate di fanteria, come anche dal fatto che, sull'Albo d'oro dei caduti, sarà ricordato ancora come colonnello del 140° fanteria.




BIBLIOGRAFIA
- M. Gandini, Raffaele Pettazzoni nel primo dopoguerra - materiali per una biografia, in Strada maestra, quaderni della biblioteca G.C. Croce, San Giovanni Persiceto, n. 44, 1° semestre 1998.
- AA. VV., L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), Vol. IIbis, Roma, Libreria dello Stato.
- Annuario Militare del Regno d'Italia, varie annate.
- Riassunti storici dei Corpi e Comandi, Vari Volumi, Roma, Libreria dello Stato.

lunedì 24 febbraio 2020

L'influenza Spagnola da un opuscolo del 1918

In questi giorni in cui l'Italia ed il mondo interno sono alle prese con un epidemia che sembra difficile da contenere, agli appassionati di storia non potrà non tornare alla mente la più grande pandemia che colpì il globo nel XX secolo: L'influenza Spagnola.
La spagnola portò, in una realtà già provata da cinque anni di guerra, ad un bilancio circa 500.000.000 di contagiati e tra i 50/70.000.000 di morti.
Fortunatamente il Covid-19 non è al momento paragonabile a quel virus, grazie anche all'avanzamento della ricerca medica, ma avendo poco tempo fa recuperato un opuscolo emesso nel 1918 dal Ministero dell'Interno del Regno d'Italia ci è sembrato interessante sottoporre ai nostri lettori le avvertenze che, ieri come oggi, permettono di evitare il propagarsi di una malattia virale.










A cura di
Arturo E.A