giovedì 7 dicembre 2017

Bersaglieri, al galoppo! - Bersaglieri montati in Sicilia nel 1875

Nell'immaginario collettivo i bersaglieri arrivano a passo di corsa con le piume che si agitano al vento, c'è stato però un breve periodo nel quale alcuni fanti piumati adottarono il cavallo come strumento di servizio.

Nel 1875 l'ancora giovane Regno d'Italia iniziava una lotta che, come testimoniato dalle cronache dei telegiornali, continua ancora oggi, ossia la lotta contro la Mafia in Sicilia.
Le forze messe in campo furono massicce, nella relazione d'inchiesta Franchetti-Sonnino del 1875-1876 si legge infatti che nell'isola erano presenti "ventidue battaglioni e mezzo tra fanteria e bersaglieri, due squadroni di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montati, oltre i carabinieri".

I bersaglieri montati dovrebbero la loro origine dalla necessità di avere un'unità capace di muoversi agevolmente nelle asperità del terreno siciliano e, considerando che un plotone aveva più o meno una 40ina di uomini, l'intero reparto contava poco più di 160 unità e questo spiega la poca conoscenza dell'argomento, nonchè la rarità di scatti che li vedono ritratti.

A livello uniformologico poche sono le informazioni rintracciabili, esplicativa però è questa tavola del 1875 disegnata dal maestro Quinto Cenni:


Dal volume di Giorgio Cantelli "Le uniformi del Regio Esercito nel periodo umbertino" vi è una descrizione più dettagliata degli elementi distintivi di questo reparto:

Ufficiali

La giubba in panno turchino scuro si portava sbottonata con il gilet scoperto, i due revers erano rovesciati sul petto e fissati alle rispettive bottoniere. Il berretto, portato al posto del berretto piumato, era solitamente protetto da una foderina bianca. Ai piedi stivali di pelle nera alla scudiera portati sopra i pantaloni.
Come armamento al fianco sinistro portavano, in sostituzione della sciabola, la fondina in cuoio del revolver, in vita invece cingevano una cartucciera da cacciatore e carabina a tracolla.

Truppa
La truppa non vide grandi variazioni rispetto alla tenuta classica; come armamento invece erano abbastanza allineati agli ufficiali: cartucciera in vita, revolver al fianco e carabina a tracolla.

Testimonianze fotografiche

Vediamo adesso un paio di foto dell'epoca.

In questo scatto vediamo un caporale ritratto nello studio Seffer di Palermo. 


In questo particolare si vede meglio l'arma principale, in questo caso una doppietta da caccia in luogo del canonico Vetterly 1870 monocolpo, e quella secondaria, una pistola ad avancarica portata al fianco:


Guardando gli stivali si nota che su quello destro è assente lo sperone che, invece, sembra di intravedere su quello sinistro. Questo accorgimento era adottato per meglio assumere la posizione di tiro in ginocchio.




In quest'altra istantanea troviamo invece il Tenente Michelotti Ulderigo, del 3° Bersaglieri, ritratto sempre nello studio Seffer nel 1877. La posa molto guascona permette di apprezzare bene il revolver in vita, a differenza della descrizione del Cenni in questo caso solo la parte alta dei due revers è abbottonata risvoltata, a creare l'effetto di bavero aperto.
Al retro una simpatica dedica che recita:
"All'amico Compiano in memoria della barba vegetata e coltivata nelle libere arie di Collesano"
ci permette di conoscere destinatario dello scatto, ossia tenente Compiano Lorenzo anche lui del 3°, e la possibile zona di operazioni del reparto, ossia il comune di Collesano a circa 70 km da Palermo.




Al momento purtroppo queste sono le due uniche foto reperite, speriamo in futuro di riuscire ad integrare la documentazione in merito.

A cura di
Arturo E.A.

Bibliografia:
- Annuario Militare del Regno d'Italia 1876, Carlo Voghera editore, Roma;
- Cantelli Giorgio "Le uniformi del Regio Esercito Italiane nel periodo Umbertino" , USSME 2000;
- Le uniformi Italiane nel codice Cenni, Editoriale Nuova SPA, Novara 1982

sabato 11 novembre 2017

La breve guerra del colonnello Robert - Il 122° Reggimento Fanteria a Polazzo , 25-27 luglio 1915

La pubblicistica sulla Prima Guerra Mondiale, la stampa, persino il cinema, hanno instillato nell'immaginario collettivo - e specialmente in quello degli Italiani - un sentimento di profonda avversione, quando non di vivo disprezzo, verso la categoria degli ufficiali superiori. La fama più sinistra spetta certamente agli ufficiali generali - avvertiti come lontani dal combattimento e dagli umori della truppa -, mentre le figure dei colonnelli godono di una considerazione altalenante; costituendo, del resto, l'anello di congiunzione - nella catena di comando - tra gli ordini dei comandanti e la loro esecuzione da parte dei gregari, fossero essi uomini truppa, sottufficiali o ufficiali subalterni. Pensiamo, ad esempio, al personaggio del colonnello Dax in "Orizzonti di Gloria", l'antieroe interpretato da Kirk Douglas, stretto nella morsa tra i confliggenti doveri verso i superiori gerarchici e quelli verso i suoi soldati.

La vicenda che tratteremo qui ci pare, in proposito, assai emblematica, involgendo, oltre al profilo schiettamente militare, anche la dimensione umana del suo protagonista. Anche in questo caso, il nostro articolo prende le mosse da alcuni oggetti: un piccolo lotto di fotografie cartonate recuperate grazie a un bravo venditore, che non ha voluto separarle l'una dall'altra.

Mario Robert nacque a Torino il 1° aprile del 1861, giusto un paio di settimane dopo la proclamazione del Regno d'Italia e l'unificazione del Paese. Il padre, Giovanni Battista Robert, era un ufficiale di carriera dell'Armata Sarda la quale, proprio dal maggio di quell'anno, avrebbe assunto la denominazione di Regio Esercito Italiano. Al seguito della famiglia – e dei trasferimenti di reparto del padre -, il piccolo Mario si trasferì durante l'infanzia a Milano, risiedendo nella centralissima Via Solferino. Fu dunque ammesso allo storico Liceo "Parini", ove frequentò le classi ginnasiali e liceali, dal 1871/72 al 1875/76.

Successivamente, seguendo le orme di suo padre, anche Mario Robert decise di intraprendere il mestiere delle armi. Nel 1878, a diciassette anni, fece dunque il suo ingresso nella Scuola Militare di Fanteria e Cavalleria di Modena. Uscitone sottotenente - con anzianità al 12 settembre 1879 -, fu assegnato all'arma di Fanteria, nella quale avrebbe servito per tutto il resto della sua carriera.


Mario Robert, giovane capitano del Regio Esercito, in una foto datata al 1888 (collezione dell'autore).

Intorno alla metà degli Anni Novanta, Robert fu assegnato ad un reparto di stanza nella città di Ascoli Piceno. Qui, baldanzoso ufficiale dal look all'umbertina, conobbe una giovane fanciulla del luogo, Luigia Spalazzi, di antica e facoltosa famiglia, con una forte tradizione risorgimentale alle spalle. Il padre di lei, professor Giovanni Spalazzi, era stato un importante esponente della carboneria marchigiana, combattente nelle Guerre d'Indipendenza, fervente mazziniano nonché stimato sindaco del borgo di Castel di Lama, a pochissima distanza da Ascoli.
I due fidanzati convolarono a nozze nel mese di luglio del 1897 in quel di Torino, ove Robert era, nel frattempo, stato trasferito. Gli anni successivi videro la coppia spostarsi lungo la penisola, in conseguenza dei trasferimenti ordinati al marito.


 Tuttavia, la famiglia Spalazzi possedeva una cospicua tenuta a Castel di Lama, presso la quale l'ufficiale e la consorte si recavano sovente in villeggiatura. La stampa locale così lo descriveva:
"La nostra Ascoli lo annoverava fra i suoi cittadini. Gentiluomo perfetto, cortese, affabile, simpatico, aveva ovunque ammiratori e amici."
Nel giugno del 1907, Mario Robert fu promosso tenente colonnello, ed assegnato al 46° reggimento della Brigata "Reggio", di stanza a Napoli.
Mario Robert, tenente colonnello del 46° Reggimento Fanteria della Brigata "Reggio" (collezione dell'autore).
In seguito, fu nuovamente trasferito al 91° Reggimento della Brigata "Basilicata", di stanza a Torino, sua città natale. Nell'aprile del 1912 - cinquantunenne -, fu infine promosso al grado di colonnello e posto, finalmente,  al comando di un reggimento: si trattava del 54° Reggimento della Brigata "Umbria", di stanza ad Ivrea [1]. Nel frattempo, era stato insignito del cavalierato dell'Ordine della Corona d'Italia e di quello dei Santi Maurizio e Lazzaro, nonché della croce d'oro per i venticinque anni di servizio nel Regio Esercito. Alle sue dipendenze, tra i molti ufficiali, anche il capitano Gaetano Ragazzi, che incontreremo prossimamente in altro articolo di questo blog.

La primavera del 1915

Nella primavera del 1915, in corrispondenza dell'inizio delle operazioni di mobilitazione del Regio Esercito (come accennato anche qui), iniziò la costituzione delle brigate di fanteria di Milizia Mobile, formate con coscritti delle classi già richiamate dal congedo e in minor misura con personale tratto da altre unità di Esercito Permanente. Tra queste, vi era la Brigata "Macerata", costituita - formalmente in data 1° marzo 1915 - dal 121° e 122° Reggimento Fanteria. Una Brigata della quale si è già trattato in queste pagine, nel raccontare la vicenda del giovane sottotenente Candido Cresseri (per la quale rimandiamo al relativo articolo).
Per assumere il comando del nuovo 122° Reggimento, fu scelto proprio il colonnello Robert, che lasciò dunque Ivrea per raggiungere Macerata, sede del costituendo reparto [2]. La stampa avrebbe ricordato così il momento:
"Noi, che scriviamo, lo ricordiamo lieto di baldo ardimento, congedarsi dai parenti, dagli amici, pieno di fede nell'avvenire, per andare a formare a Macerata il nuovo reggimento composto in gran parte di nostri corregionali, [...] mentre era in corso la sua promozione a maggior generale."
Dunque, si era alla vigilia di un avanzamento di carriera che, se fosse giunto in tempo, avrebbe forse condotto Robert ad un diverso destino, ponendolo, assai probabilmente, al comando di una Brigata. Ma i tempi dell'amministrazione militare, si sa, seguono ritmi imperscrutabili: pertanto, nelle more della promozione, presumibilmente in quegli stessi primi giorni di marzo, il colonnello raggiunse il suo nuovo reggimento.
Mario Robert, colonnello comandante del 54° Reggimento fanteria, negli anni 1913-1915 (collezione dell'autore).
Le settimane successive furono dedicate all'organizzazione e alla preparazione del reparto, avvicinandosi sempre più la data della dichiarazione di guerra all'Austria-Ungheria, che giunse il successivo 24 maggio. A quella data, il 122° Reggimento non si trovava, tuttavia, in zona di guerra, bensì ancora presso il proprio deposito di Macerata. La partenza verso il fronte avvenne, infatti, il 2 giugno: secondo quanto riportato dai giornali, il colonnello Robert...
"...soldato prima che sposo, non volle, partendo per la zona di guerra, rivedere la sua donna, esprimendone i motivi in una lettera che è tutta una lirica di tenerezza, affermando che il breve incontro, che avrebbe potuto aver luogo, poteva togliergli un po' di quella energia che doveva intera alla patria."
A proposito di questo atteggiamento del colonnello, che non volle che il suo cuore potesse essere turbato da visioni amorose, si considerino le parole scritte - pur in altro contesto - dal giovanissimo ufficiale degli Alpini Pier Felice Vittone, riportate nel nostro articolo a lui dedicato.
Il 122° Fanteria, per ferrovia, iniziò dunque il trasferimento verso il Nord, sino a raggiungere Lonato del Garda, insieme al gemello 121°. Qui, riuniti i propri reggimenti, la Brigata "Macerata", incorporata nella 25^ Divisione di Fanteria,  fu destinata a trascorrere le settimane successive, impegnata in un intenso addestramento, allo scopo di amalgamare i reparti e prepararli all'entrata in linea.
Il 18 luglio, sempre da Lonato, Mario Robert scrisse al sindaco di Ascoli per ringraziare dell'offerta, fatta dall'amministrazione comunale, della bandiera di guerra del 122° Reggimento: bandiera che, come si vedrà, riveste una notevole importanza simbolica nella storia che stiamo narrando. 
Ma, intanto, anche per la Brigata "Macerata" era giunto il momento di entrare in linea: essa fu dunque posta alle dipendenze della 20^ Divisione del X Corpo d'Armata (inquadrato nella Terza Armata), e fu trasferita nella zona di Fogliano-Redipuglia, nel settore del Basso Isonzo, giungendovi sul giorno 24 luglio


L'arrivo in linea nel settore del basso Isonzo

Dal giorno 18 luglio, intanto, stavano svolgendosi le operazioni della seconda offensiva generale intrapresa dall'esercito italiano (Seconda Battaglia dell'Isonzo): il X Corpo d'Armata (con comando a Turriaco), costituito dalla 19^ e 20^ Divisione, teneva la fronte fra le posizioni ad est di Castelnuovo e quelle a nord di Redipuglia (q. 89). La seconda fase dell'offensiva avrebbe dovuto scattare il giorno 24. 
La zona di Polazzo (in rosso, le località rilevanti per la presente narrazione).
 Lo stesso giorno, il comando della Terza Armata (S.A.R. Emanuele Filiberto di Savoia, duca d'Aosta) diramava il seguente ordine di operazioni:

"E' necessario impadronirsi dell'altipiano carsico ad ogni costo. L'energia dei comandanti, il valore delle truppe, le nuove forze fresche a disposizione dei corpi d'armata mi danno affidamento che lo scopo sarà raggiunto [...]"[2]
"Il X Corpo, sulla fronte della 19^ e 20^ Div., dovrà spingere innanzi col massimo vigore ed al più presto la propria offensiva, fino a raggiungere una linea da cui possa impiegare con efficace azione il maggior numero possibile di batterie, agevolando così il compito del dell'XI Corpo [...]".
Dunque, il primo tempo delle operazioni prese avvio alla sera del 24 luglio: alle 16.30 iniziò il tiro di preparazione da parte delle nostre artiglierie, e l'attacco scattò alle ore 19.30.
Come visto, la Brigata Macerata raggiunse la zona lo stesso 24 luglio. Il comandante del X C.d.A. (gen. Grandi) dispose dunque che il 121° Reggimento e il comando di Brigata fossero assegnati in rinforzo della 20^ Divisione [3]. Il 122° Reggimento, comandato dal col. Robert, sarebbe invece rimasto, con altre unità, a disposizione dello stesso comando di C.d.A., in riserva a Fogliano [4].

Schieramento della Terza Armata nella Seconda Battaglia dell'Isonzo (18 luglio - 20 agosto 1915).


Nel corso della notte e del mattino seguente, le unità del X C.d.A. procedettero verso gli obiettivi stabiliti, ma la progettata avanzata verso il settore centrale dell'altipiano carsico, scarsamente appoggiata dall'artiglieria, non riuscì, ostacolata in special modo dalle difese passive predisposte dal nemico, e rimaste pressoché intatte.

La giornata del 26 luglio 1915


Il 26 luglio, giunse, anche per il 122° Fanteria, il momento del battesimo del fuoco. Lasciata Fogliano, il colonnello Robert schierò il suo reparto, pronto per scattare in avanti. Dato dal colonnello l'ordine di avanzata, bisogna ritenere che, sotto la violenza del fuoco avversario, i fanti del 122° ebbero un momento di esitazione, arrestandosi. E' questo lo scenario in cui si stava per consumare l'ultimo atto della carriera, militare quanto umana, del colonnello Robert.
Infatti, in quel difficile frangente, vista la situazione, Mario Robert ritenne di dover dare, lui per primo, l'esempio: impugnò dunque la bandiera reggimentale e si lanciò all'assalto, trascinando i propri uomini. Con questo gesto memorabile, il colonnello Robert chiuse la propria esistenza terrena: pochi minuti dopo, colpito in più parti del corpo, cadeva esangue sul terreno.
Secondo la stampa, Mario Robert
"fu colpito mentre, uscendo dalla trincea con bandiera in mano, eccitava il proprio reggimento all'assalto. Colpito cinque volte, cadde e ricadde, sempre rialzandosi fin che fu trascinato ad un'ambulanza".

Cartolina propagandistica riferita, con molti errori, agli ultimi momenti del col. Robert.

Dunque, raccolto dai suoi uomini, il colonnello giunse ancora vivo presso un ospedale da campo, dove si trascinò tra la vita e la morte sino al giorno successivo. In questo drammatico momento, il Mario Robert ricevette persino la visita di Re Vittorio Emanuele III, al quale disse:
 "Maestà, ho fatto il mio dovere; raccomando alla sua bontà quei bravi ragazzi che mi hanno trascinato qui"[4].
Spirò nel corso della giornata del 27 luglio. Si trovava in linea - si noti - da soli tre giorni.
Tornando all'azione in cui fu ferito a morte, si deve notare che, nonostante il suo sacrificio - e quello di altri undici fanti del solo 122° - essa non condusse ad alcun risultato di rilievo. Il comando del 122° Reggimento fu assunto dal ten. col. Ferruccio Marini, già comandante del III Battaglione, che avrebbe condotto il reparto nelle operazioni dei giorni successivi.
Il successivo 12 settembre, il Re, motu proprio, conferiva alla memoria del colonnello la Medaglia d'Argento al Valor Militare, con la seguente motivazione:
"Nell'attacco di una posizione rafforzata del nemico, ad un accenno di sosta del suo reggimento per rispondere al violento fuoco avversario, impugnata la bandiera, si slanciava animosamente avanti trascinando seco la intera linea. Colpito da più proiettili, cadeva gravemente ferito sul campo e ne moriva il giorno dopo." - 26 luglio 1915.
A proposito della sfortunata azione del 26 luglio, dettagli di massimo interesse - anche per la vicenda personale del colonnello Robert - emergono da un passo del diario di Pietro Storari, soldato del 121° Reggimento - il gemello del 122° -, conservato presso l'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (e leggibile più estesamente qui:http://espresso.repubblica.it/grandeguerra/index.php?page=estratto&id=161). A proposito di quella mattinata di sangue, avrebbe ricordato:
"Poco dopo giunse l'ordine di fare baionetta in canna ed in pari tempo si sentì [sic] squilli di tromba "d'assalto", fu sulle labbra di tutti il grido di Savoia, e nello stesso tempo tutti dietro il Comandante la Compagnia si balzò la trincea.
Malgrado però il lungo bombardamento il nemico contava ancora ingenti forze, poiché la fitta fucileria e le numerose mitragliatrici appostate in caverne impedirono la riuscita dell'assalto, causandoci terribili perdite.
In quell'assalto la bandiera del 122° Reggimento Fanteria cadde in mano al nemico, che grazie all'energico slancio dei Soldati del 121° la medesima poco dopo ritornò in nostro possesso insieme a prigionieri in pari tempo catturati."
Dunque, stando alla testimonianza di Storari, nel corso dell'assalto del 26 luglio la bandiera di guerra del 122° reggimento "cadde in mano al nemico": parrebbe, a questo punto, doversi ricollegare questo ricordo alla riportata motivazione della MAVM conferita al colonnello Robert, che recita appunto "impugnata la bandiera, si slanciava animosamente avanti trascinando seco la intera linea".

La cattura della bandiera reggimentale era un fatto assai grave, e che rende ragione dell'estrema drammaticità del momento. Prestando fede a queste parole, pare di potersi dedurre che il gesto - alquanto melodrammatico - del colonnello Robert, oltre a costargli la vita, mise in pericolo - in aggiunta alla bandiera, chiaramente - anche la saldezza del reparto.  Fu, dunque, sconsideratezza?

A ben vedere, questo fatto si inserisce in un contesto assai peculiare: quello definito della "guerra del '15". La "guerra del '15", perlomeno con riguardo alle operazioni compiute sino al termine dell'estate di quell'anno, fu combattuta dal nostro esercito - ed in particolare modo dai suoi ufficiali - in particolarissime condizioni morali e spirituali. Il clima di acceso patriottismo che aveva accompagnato la nostra entrata in guerra, la forte motivazione ideale in continuità con l'esperienza risorgimentale, la diffusa illusione di prendere parte a una guerra breve - nella quale, dunque, si doveva far presto a conseguire glorie, onori e distinzioni - determinò in molti di quegli uomini una condizione di, oseremmo dire, "esaltazione" che si tradusse in una temerarietà spinta al parossismo, e in un reale - quanto pericoloso - sprezzo del pericolo, quando non addirittura della propria incolumità fisica. Tale fenomeno, ben avvertito - col passar degli anni - dagli stessi contemporanei, è stato ampiamente studiato da storici e commentatori (tra tutti, segnaliamo, quale compendio, il capitolo Dal radioso maggio al funereo autunno in Piero Melograni, Storia politica della Grande Guerra, Laterza, 1972): nei fatti, ciò contribuì a determinare altissime perdite tra le file del Regio Esercito, ed in particolare tra i ranghi degli ufficiali.

A farne le spese furono, in specie, gli ufficiali di carriera - come Mario Robert - (soggetti ben addestrati, formati professionalmente all'esercizio del comando) la cui falcidia, nel corso del 1915, ne avrebbe determinato la massiccia sostituzione da parte degli ufficiali di complemento. Ciò che avrebbe cagionato gravi problemi alla macchina militare, i quali si sarebbero trascinati per tutto il resto del conflitto. 

In quella calda mattinata estiva, dunque, il solido colonnello Robert, appena giunto in linea dopo una vita di caserma, inebriato dall'occasione, parrebbe essersi lasciato pervadere da un accesso di garibaldinismo, ormai anacronistico in un contesto, quale quello della fine di luglio del 1915, in cui il fronte si era già stabilizzato nella guerra di trincea (si pensi che Storari parla di "mitragliatrici in caverna"), e le logiche del combattimento ottocentesco erano drammaticamente tramontate.
In una differente prospettiva, potrebbe anche esser stato semplicemente il puro senso del dovere - al quale aveva evidentemente informato la propria vita, quanto l'istruzione dei propri sottoposti - a dettargli quel gesto plateale, nella (ingenua, forse?) convinzione di non fare, in tal modo, sfigurare il proprio reparto, e le proprie doti di comandante.
Nell'uno e nell'altro caso, l'emozione gli fu fatale.

Il profilo di Mario Robert tratto da "La Guerra Italiana" - Rassegna settimanale, n. 14, 29 agosto 1915.
 Come già ricordato, insieme al colonnello Robert, nell'azione del 26 luglio caddero anche i seguenti fanti del 122° Reggimento:
  • ANGELINI Guerrino, di Nazzareno, soldato, nato ad Ascoli l'11 giugno 1888, deceduto il 15 agosto sul campo per ferite riportate in combattimento;
  • ANTONIOZZI Giuseppe;
  • BERNARDI Luigi, di Domenico, soldato, nato ad Ascoli il 24 marzo 1888, deceduto il 29 luglio 1915 per ferite riportate in combattimento;
  • BRUNI Domenico, di Salvatore, caporale, nato ad Ascoli il 14 dicembre del 1891, deceduto il 4 agosto del 1915 nell'ospedaletto da campo n. 70 per ferite riportate in combattimento;
  • CHIAPPA Carlo, di Martino, caporale, nato a Parabiago (MI) il 17 febbraio 1889, deceduto il 27 luglio 1915 sul campo in combattimento;
  • FAGIOLI Michele, di Marino, soldato, nato ad Ascoli il 23 settembre 1889, deceduto il 6 agosto 1915 per ferite riportate in combattimento;
  • FILIAGGI Annibale,  di Giovanni, soldato, nato ad Ascoli il 23 giugno 1890, deceduto il 17 agosto 1915 per ferite riportate in combattimento;
  • MARUCCI Francesco, di Emilio, caporale, nato ad Ascoli il 5 agosto del 1888, deceduto il 3 agosto 1915 nell'ospedaletto da campo n. 66 per ferite riportate in combattimento;
  • PROSPERI Saverio, di Antonio, soldato, nato ad Ascoli il 7 ottobre del 1895, deceduto il 14 agosto (ad Acqui?);
  • SABBATINI Massimo, di Nazzareno, soldato, nato ad Ascoli il 5 ottobre del 1889, deceduto il 10 agosto 1915 nell'ospedaletto da campo n. 66 per ferite riportate in combattimento;
  • TRANQUILLI Pierino, di Filippo, soldato, nato ad Ascoli il 12 dicembre 1891, deceduto il 15 agosto 1915 per ferite riportate in combattimento.
Come si diceva, dopo un giorno di agonia, il colonnello Robert si spense il 27 luglio del 1915: dopo un'intera vita passata in uniforme, la sua breve guerra era durata solo tre giorni.
 "Anelava di portare al fuoco i suoi bravi soldatini, ma il fuoco ha voluto la vittima più pura, più nobile, più valorosa, e l'eroe santificato dal sacrificio sarà ricordato tra coloro che alla patria diedero il migliore sangue.
Noi, che scriviamo, lo ricordiamo lieto di baldo ardimento, congedarsi dai parenti, dagli amici, pieno di fede nell'avvenire [...]"
Necrologio del colonnello Robert apparso su "La Stampa" di Torino il 6 agosto 1915.
Alla sua memoria, la città di Ascoli Piceno tributò solenni celebrazioni. In particolare, il 20 ottobre successivo si tenne una cerimonia commemorativa presso la sala dei quadri del Municipio di Ascoli, alla presenza delle massime autorità civili e militari cittadine, nonché della famiglia del defunto colonnello. Oratore per l'occasione fu il sindaco, cav. Giuseppe Maria De Marzi. Presente anche il generale Vittorio Asinari di Bernezzo, in quel mentre al comando del locale corpo d'armata, bellissima figura di soldato del quale ci piacerebbe raccontarvi di più in futuro (nel frattempo, vi invitiamo a leggere l'ode del Pascoli, a lui dedicata: A riposo ). A seguito della giornata, fu dato alle stampe un opuscolo commemorativo, "In onore del colonnello Mario Robert", in tiratura limitata.

Copertina dell'opuscolo commemorativa "In onore del colonnello Mario Robert", stampato dal Comune di Ascoli Piceno.
A Castel di Lama, ove lasciò grande compianto - e dove la sua vedova si sarebbe ritirata - gli fu dedicata un piccolo monumento, ad oggi ancora esistente:
Ci perdonerete per la pessima immagine, tratta da "Google Street View".
La targa dedicata alla sua memoria recita:
"In memoria 
del Colonnello 
Mario Robert 
caduto gloriosamente
il 26 luglio 1915
e di tutti i valorosi 
di Castel di Lama".
A cura di Niccolò F.

NOTE
[1] Annuario Militare del Regno d'Italia - Anno 1913, vol. I.
[2] Invero, la sede di costituzione del 122° reggimento fanteria risulta Chiaravalle, e non Macerata; ma qui si è preferito seguire l'indicazione riportata dalla stampa.
[2] Cit. in L'Esercito Italiano...op.cit., Vol. II, p. 266.
[3] Riportato in L'Esercito Italiano... op. cit., Vol. IIbis, p. 288-289.
[4] La Guerra d'Italia, Fratelli Treves Editore, vol. II, pag. 266.

BIBLIOGRAFIA

- Giuseppe Marucci, Giovanni Spalazzi, un patriota ascolano da non dimenticare, in “Flash il Mensile di Vita Picena”, n. 386, pp. 8-9.
- AA. VV., L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), Vol. IIbis, Roma, Libreria dello Stato.
- Annuario Militare del Regno d'Italia, varie annate.
-  Fratelli Treves Editore, La Guerra d'Italia, vol. II.
-Ministero della Guerra, USSME, Guerra italo-austriaca 1915-1918 - Le Medaglie d'Oro , Vol. I, Roma, Stab. Poligrafico per l'amministrazione della Guerra, 1923.
- Riassunti storici dei Corpi e Comandi, Vari Volumi, Roma, Libreria dello Stato.

sabato 14 ottobre 2017

Al caporale Gatti, da Novara, caduto nella battaglia di Zagora


Sulle bancarelle dei tanti mercatini domenicali della nostra Penisola, non mancano mai scatole e album ricolmi di santini: ricordi di cresime, battesimi, e - più spesso - di cari estinti di un tempo che fu. 
A chi scrive, la scorsa domenica è capitato di imbattersi nel luttino dedicato alla memoria del caporale Giovanni Luigi Gatti di Novara. In suo omaggio, in questo breve post ricorderemo il fatto d'arme in cui trovò la morte, il 12 novembre del 1915.
Giovanni Luigi Gatti, qui in uniforme da fante dell'89° Reggimento della Brigata "Salerno".
Non sappiamo nulla della giovinezza del fante Gatti, se non che venne alla luce il 9 aprile del 1889 nella città di Novara. Ci s'impone dunque un salto cronologico, sino al 1915. Dalla foto che i suoi cari scelsero per lui, scopriamo che dovette prestare servizio - immagineremo, al momento del suo richiamo alle armi - nell'89° Reggimento Fanteria della Brigata "Salerno", di stanza a Genova. Successivamente, sarebbe stato trasferito invece al 126° Reggimento della Brigata "Spezia". Questa era una brigata di Milizia Mobile costituita - mediante il richiamo di coscritti dal congedo - nel marzo dello stesso anno 1915.
Inquadrata nella Seconda Armata, la Brigata “Spezia”, nel corso dell'estate, avrebbe partecipato alle sanguinose offensive dirette ad espugnare, in particolare, il Monte Kuk ed il Monte Sabotino. Ritirata dalla linea, alla fine di settembre fu trasferita nella zona di Prepotto (UD), attraversando il fiume Iudrio, per trascorrere il turno di riposo.  
Cartolina reggimentale del 126° Regg. Fant. Brigata "Spezia".
Il 20 ottobre, iniziata la Terza Battaglia dell’Isonzo, la “Spezia” ripassò lo Iudrio e si portò prima a Zapotok, e poi tra i villaggi di Lig e Kambresco, ove il 23 fu raggiunta dai nuovi complementi.
Gli ultimi giorni di ottobre trascorsero così nella preparazione del nuovo attacco: esso era concepito con l’obiettivo di oltrepassare l’Isonzo e creare una testa di ponte sulla sua riva destra, in corrispondenza del villaggio di Plava[1]. Si trattava, invero, di un piano già tentato il 15 giugno precedente, nel corso della Prima Battaglia dell’Isonzo, con un attacco risoltosi però in una sanguinosa sconfitta, con i nostri reparti costretti a ripiegare nuovamente sulla riva sinistra del fiume.
Tra i fanti della Brigata "Spezia", vi era anche un giovane ufficiale livornese: il tenente Giosuè Borsi[2] - inquadrato nella 4^ Compagnia del 125° Reggimento - raffinato intellettuale, scrittore e giornalista, nonché originale figura di dandy e volontario di guerra. Questa la descrizione che lasciò di quei luoghi e di quei giorni: 
Finalmente ci siamo messi in marcia sotto la luna, abbiamo salito il monte, siamo discesi dall’altro versante e, giunti sulla riva dell’Isonzo, ci siamo disposti in linea. Fino all’alba ho lavorato coi miei soldati a scavare la nostra trincea, vi ho disposto tre delle mie squadre e ne ho condotto una quarta con me, in questa trincea coperta, lasciata dagli avamposti. Sotto questa trincea scorre l’Isonzo, che vediamo dalle feritoie in tutta la sua incantevole bellezza. A monte, sulla nostra sinistra, è il punto della riva dove sarà gettato il ponte per il nostro passaggio. A valle si trova la testa di ponte di Plava, con due reggimenti pronti a rincalzare la nostra avanzata.[3]
All’alba di lunedì 1° novembre, la brigata “Spezia”, insieme al resto della 3^ Divisione, dopo un intenso tiro eseguito dalle nostre artiglierie, si lanciò dunque all’attacco delle posizioni austriache dell’abitato di Globna (a nord del villaggio di Plava), già conteso nella Prima Battaglia dell’Isonzo, in giugno, dagli stessi reparti. Gli austriaci, però, si trovavano schierati su posizioni ottimamente organizzate e ben protette dai reticolati. Dopo aver attraversato l’Isonzo su barche e su alcune passerelle gettate nella notte, sotto il fuoco martellante della fucileria nemica, gli Italiani raggiunsero la riva destra, e mossero all’assalto dei loro obiettivi. Tuttavia, a causa della violentissima reazione nemica, l’azione, da parte del 126° regg. e del II battaglione del 125° non portò a grandi risultati e dovette essere arrestata. Trovò invece una maggiore fortuna l’attacco intrapreso dal I e III btg. del 125° che assaltarono di sorpresa e conquistarono parte dell’abitato di Zagora – una frazione di Plava - e l’antistante “trincerone della Casa Isolata”, catturando oltre trecento prigionieri e molto materiale. Il valore e il contegno dei fanti del 125° fu tale da far guadagnare la Medaglia di Bronzo al Valor Militare alla bandiera del reggimento[4], con questa motivazione:
Con salda disciplina ed impeto travolgente, conquistò alla baionetta il villaggio di Zagora, tenacemente difeso.
La brigata sopportò però delle gravi perdite, nell’ordine di 23 ufficiali e 480 uomini di truppa. Con questo attacco, gli Italiani riuscirono tuttavia ad attestarsi sulla riva orientale dell’Isonzo, creando una piccola testa di ponte: il mantenimento di essa si rivela però da subito difficilissimo, sia in termini di rifornimento, che di protezione dal tiro delle artiglierie, delle mitragliatrici e dalle continue puntate nemiche.[5] Inoltre, un’ampia parte del paese rimaneva ancora in mano austriaca. Si combatteva via per via, casa per casa: il paese, già ridotto a un cumulo di rovine, diventò un cimitero a cielo aperto dato che la vicinanza delle rispettive linee rendeva infatti impossibile anche il recupero dei cadaveri.  Inoltre, le condizioni metereologiche, già assai precarie, peggiorarono ulteriormente nei giorni seguenti.
Dopo oltre una settimana passata a riordinare le fila della brigata e a tentare di consolidare le posizioni acquisite, sotto il tiro continuo delle artiglierie nemiche e con numerosi tentativi di colpi di mano da parte austriaca, i comandi italiani decisero di tentare un nuovo attacco per sbloccare la situazione, tentando la conquista delle pendici meridionali del Monte Cucco e della parte del paese ancora in mano avversaria.
Al mattino del 10 novembre, i fanti della “Spezia” scattarono verso i propri obiettivi: il combattimento, con alterne vicende, proseguì sino al giono 15. Tuttavia, gli Austro-Ungarici, ben arroccati nelle loro posizioni, respinsero tenacemente ogni attacco, ed i progressi per gli Italiani si rivelarono assai ridotti. Terminati i combattimenti, gli Italiani contarono 264 prigionieri catturati, ma, oltre a dover contare più di cinquecento feriti, lasciarono sul terreno sei ufficiali e un centinaio di militari di truppa. Tra gli ufficiali, cadde - il giorno 10 novembre - il già citato tenente Giosué Borsi. Il nostro Giovanni Gatti, invece, trovò la morte il giorno 12, "colpito alla fronte" mentre "arditamente avanzava con i suoi compagni d'arme", come recita il santino dal quale ha preso le mosse questa narrazione [6].

Pochi giorni prima, il ten. Borsi aveva scritto alla madre: 
Qua, staccato dal mondo, sempre con l’immagine della morte imminente, ho sentito quanto sono forti i legami col mondo, quanto gli uomini abbiano bisogno d’amore reciproco, di fiducia, di disciplina, di concordia e d’unità, quanto siano necessarie e sacrosante cose la patria, il focolare, la famiglia, quanto sia colpevole chi le rinnega, le tradisce, le opprime. Amore e libertà per tutti, ecco l’ideale per cui è bello offrire la vita. Che Dio renda fecondo il nostro sacrificio, abbia pietà degli uomini, dimentichi e perdoni le loro offese, dia loro la pace, e allora, mamma, non saremo morti invano. Ancora un tenero bacio.[7]
Dopo centodue anni da quel giorno di novembre, si può solo pensare alla sorte, agli eventi che misero fianco a fianco uomini così diversi - come il tenente Borsi e il caporale Gatti -, così distanti nella vita, e li unirono, per sempre nella morte e nel ricordo.

A cura di Niccolò F.


[1] Plava (Plave), è oggi uno dei 19 naselja (“insediamenti”) di cui è formato il municipio sloveno di Canale d’Isonzo (Kanal ob Soci).
[2] Giosuè Borsi (Livorno, 1888-Zagora, 1915) è stato un giovane e raffinato intellettuale, scrittore, poeta e giornalista, nonché originale figura di dandy. Volontario di guerra, cadrà anch’egli a Zagora il 10 novembre 1915.
[3] G. Borsi, “Testamento spirituale”.
[4] Boll. Uff. 1917, disp. 1°, MBVM alla Bandiera del 125° Regg. Fant.
[5] P. Pieri, G. Rochat, “Pietro Badoglio”, pag.36 :“A Plava attacchi e contrattacchi d’estrema violenza, senza interruzione, giorno e notte, e poi, dal 1° al 4 novembre, un vero inferno: due divisioni sono pestate da ogni parte dall’artiglieria nemica e falciate dalle mitragliatrici!”.
[6] Si consideri che il solo 126° Reggimento Fanteria, nel periodo intercorrente tra il 1° e il 15 novembre, dovette contare 3 morti e 29 feriti tra gli ufficiali, e 129 morti, 924 feriti e 42 dispersi tr a il personale di truppa.
[7] G. Borsi, Op. Cit.

domenica 1 ottobre 2017

Breve profilo del maggiore Camillo Pasquali, alpino siciliano, eroe del Castelgomberto

Nel trattare delle vicende del sottotenente Pier Felice Vittone, al quale abbiamo dedicato un ampio articolo (vedi qui), si è brevemente accennato alla figura del maggiore Camillo Pasquali
Questi, bravo ufficiale veterano della Guerra Italo-Turca e comandante del Battaglione "Val Maira"  fino ai furibondi combattimenti del giugno 1916 sul Monte Castelgomberto, si ritrovò accomunato nella morte al suo giovane subalterno Vittone. Avendone casualmente reperito il ritratto, a lui dedichiamo questo breve post.


Camillo Pasquali, qui capitano degli Alpini (anno 1910 ca.).

Camillo Pasquali nacque a Siracusa il 22 settembre del 1874. Intrapresa la carriera militare, frequentò l'Accademia di Fanteria e Cavalleria di Modena, uscendone - invero non giovanissimo - sottotenente nel 1897 [1]. Fu dunque assegnato all'arma di Fanteria, prestando servizio di prima nomina nel 41° Reggimento della Brigata "Modena". In seguito, promosso al grado di tenente, fu trasferito al Corpo degli Alpini, al quale avrebbe consacrato i successivi anni della sua vita.
Successivamente, si sposò, ed ebbe ben sette figli.
Nel 1908, mentre si trovava assegnato al 2° Reggimento Alpini, diede una prima prova del suo temperamento coraggioso. Mentre, coi suoi uomini, era impegnato in un'escursione in montagna nel territorio del comune di Ovaro (in provincia di Udine), accortosi che uno di essi era scivolato in un torrente, vi si gettò per soccorrerlo. L'atto coraggioso, ma temerario, gli valse la sua prima Medaglia d'Argento al Valor Militare, nella cui motivazione possiamo anche scorgere l'esito del suo slancio:

Durante un’escursione in montagna, visto uno dei propri sodali cader nelle acque di un impetuoso torrente, con generoso slancio si gettò al suo soccorso, riuscendo però a scampar egli stesso dalla morte sol per l’aiuto offertogli da altri militari. – Ovaro (Udine), 10 maggio 1908.”
Il tenente Pasquali e lo sfortunato alpino furono, infatti, salvati dal coraggio del caporalmaggiore Eugenio Oniboni, da Castelnuovo Magra, che si guadagnò a sua volta la Medaglia d'Argento:
Nella predetta circostanza, arditamente si slanciò pel primo nelle acque del torrente al soccorso dei pericolanti, che, con grande sforzo, aiutato da altri, riuscì a fermare ed a spinger a riva.”
Trascorsi tre anni da questo avvenimento, scoppiò la Guerra Italo-Turca. Camillo Pasquali, intanto promosso al grado di capitano, prestava servizio nel 1° Reggimento Alpini. Scelto per essere aggregato al Corpo di Spedizione, fu inviato in Cirenaica, ove combattè - non ci è stato possibile determinare con quale battaglione [2] -, in particolare, presso Derna. Per il contegno dimostrato in combattimento, fu decorato con la Medaglia di Bronzo al Valor Militare:
Per lo slancio, l’intelligenza, la calma con la quale comandava il proprio reparto nei combattimenti del 17 gennaio e del 3 marzo 1912. – Derna, 17 gennaio e 3 marzo 1912”
Rimpatriato, riprese l'ordinario servizio di caserma. Nell'estate del 1914, "per speciali benemerenze acquistate in Libia", fu nominato cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia motu proprio dal Re Vittorio Emanuele III [3].  
Nel 1915, al momento dell'entrata in guerra del Regno d'Italia, si trovava, sempre con il grado di capitano, assegnato al Battaglione "Val Maira", del 2° Reggimento Alpini.
Riprendendo brevemente quanto già narrato con riferimento al sottotenente Vittone, ricordiamo che nel corso della prima metà di giugno del 1915, il "Val Maira" si portò al completo nel settore dell'Alto But, sostituendo il battaglione "Val Tagliamento" nell'occupazione delle posizioni sulla linea selletta Freikofel-Monte Pal Grande
Il battaglione restò su tali posizioni sino al mese di settembre, alternando il presidio delle linee - insidiato da frequenti puntate del nemico - a periodi di riposo trascorsi a Treppo Carnico. 

Il 19 settembre, a fronte del rischio di un attacco nemico sul Freikofel, il comandante del Battaglione - maggiore Antonio Dadone - , insieme alla 218a compagnia, si portò presso Casera Pal Piccolo, schierandosi a difesa del Pal Piccolo per poi trasferirsi sul Pal Grande. Su tali posizioni, nonché in altre del Monte Croce carnico e della Val Collina, il "Val Maira" trascorse gli ultimi mesi del 1915.
Il 30 dicembre del 1915, il capitano Pasquali assunse - dal cedente capitano Giuseppe Cremascoli - il comando del Battaglione "Val Maira".
La prima parte del nuovo anno 1916 non vide il Battaglione impegnato in particolari operazioni, dovendosi esso tuttavia confrontare con il grande pericolo di valanghe, che determinò adattamenti delle linee di occupazione, così come dolorose perdite tra le nostre file.
Intanto, a far data dal 17 febbraio 1916, Camillo Pasquali fu promosso al grado di maggiore.
Nella notte del 26 marzo, il nemico, agendo di sorpresa e senza preparazione d'artiglieria, riuscì a conquistare una quota centrale del Monte Pal Piccolo: i contrattacchi italiani del giorno seguente videro impegnata, in particolare, la 218a e la 219a compagnia, la quale ultima subì forti perdite.
Il brillante contegno del suo Battaglione fruttò al capitano Pasquali una seconda Medaglia d'Argento al Valor Militare:
Con mirabile coraggio ed intelligenza eseguiva l’ordine ricevuto dal comandante delle truppe di attaccare energicamente l’avversario, in modo tale da impedirgli di accorrere in altra posizione, riuscendo brillantemente nello scopo. – Pal Piccolo, 26-27 marzo 1916”
Successivamente, a metà aprile, il Battaglione "Val Maira" sostituì riparti dei battaglioni "Monviso" e del "Dronero" sulle posizioni di colletta Kozliac, Monte Nero e Monte Rosso rimanendovi fino ai primi di maggio, quando, il 10, si portò nuovamente a Kosec per provvedere a lavori stradali.
Dopo un altro turno di trincea e una settimana trascorsa sul Monte Pleca (15 - 22 maggio), il "Val Maira" rientrò a Cividale; il 24 fu trasferito a Bassano a disposizione della 1a Armata, ed il 27 si spostò nuovamente a Ronchi.
In quei giorni, era in pieno svolgimento l'offensiva di primavera sferrata dall'esercito imperial-regio sul fronte degli Altopiani (c.d. Strafexpedition), e mentre la linea del XIV Corpo d'Armata si andava deflettendo per la forte pressione avversaria, con i battaglioni "Monviso" e "Val Maira" fu costituito un nucleo avente il compito di garantire il controllo degli sbocchi della val Frenzela.
Il 28 maggio, il "Val Maira" prendeva posizione prima a Monte Nos ed a Monte Baldo poi a Monte Cimon ed a Monte Longara.
Su tali linee, piccoli attacchi di riparti esploranti furono facilmente respinti. Il 30 maggio, giunti nella zona i Battaglioni "Argentera" e "Morbegno" (quest'ultimo, del 5° Reggimento Alpini), con essi, insieme col "Val Maira" e col "Monviso", fu costituito il "Gruppo Alpini Foza".

Al 5 giugno, dunque, le forze del Gruppo risultavano così disposte: il Batt. "Monviso" tra Tondarecar e Castelgomberto; il Batt. "Val Maira" a Castelgomberto; il Batt. "Morbegno" sullo sperone a nord di Monte Fior; il Batt. "Argentera" tra Monte Fior e Monte Spil. In particolare, le cime di Monte Castelgomberto, Monte Fior, Monte Miela, Monte Tondarecar e Monte Badenecche costituivano quello definito, nelle fonti militari italiane, quale complesso montano del Castelgomberto. In questo senso, la fronte del "Gruppo Alpini Foza", come visto, si estendeva - su un'ampiezza di circa quattro chilometri - per l'appunto su tale arco montano.

Teatro d'operazioni del "Gruppo Alpini di Foza"; evidenziate in colore, le principali cime, e l'abitato di Foza.
Alle 11.30 del mattino, le artiglierie austriache aprirono il fuoco sulle posizioni difese dai Battaglioni "Morbegno" e "Monte Argentera", proseguendolo sino alle 18.00, ora in cui reparti dell'11a Brigata austro-ungarica mossero all'assalto. Gli alpini resistettero fino all'esaurirsi dell'attacco, a tarda sera: la ritirata dei reparti attaccanti avvenne intorno alla mezzanotte.
Il giorno successivo, 6 giugno, le operazioni subirono una sosta, e frattanto la direzione delle operazioni nel settore Melette-Marcesina fu assunta dal comandante del XX Corpo d'Armata, tenente generale Luca Montuori. Nell'ordine di operazioni diramato, il compito del XX Corpo fu fissato, prima di passare all'offensiva, in quello di "opporsi energicamente ad ogni ulteriore avanzata del nemico verso la valle del Brenta ed affermarsi sulle posizioni del Monte Lisser e Monte Meletta di Foza" [5].
Il mattino del giorno dopo, 7 giugno, alle ore 10.30, le artiglierie imperial-regie ripresero a battere le posizioni italiane del settore, e in particolare quelle del Monte Fior e del suo sperone nord, difeso, come si è visto, dagli alpini del Battaglione "Morbegno" (5° Reggimento). In rinforzo a questi fu inviata, tra gli altri reparti, anche la 219a compagnia del "Val Maira".

Le altre due compagnie del Battaglione (la 217a e la 218a), al comando del maggiore Pasquali, restarono invece schierate sul Monte Castelgomberto.
Si era, dunque, nel pomeriggio inoltrato del 7 giugno. Il combattimento infuriava, e gli assalti degli Austro-Ungarici si infrangevano contro l'accanita resistenza dei nostri alpini.
La lotta si sarebbe protratta sino a sera inoltrata, con pesantissime perdite tra i nostri combattenti. Tra queste, intorno alle sette di sera, anche quella del valoroso sottotenente Vittone che, colpito alla testa, sarebbe spirato poco dopo. Il maggiore Pasquali, pur di tener fede ai suoi ordini, dovette riportare "ben cinque ferite" prima di abbandonare il comando, per essere trasferito al posto di soccorso. Da lì, date le sue gravi condizioni, fu poi trasferito presso l'Ospedale civile di Bassano, ove spirò il giorno 16.
Il riassunto storico ricorda che "Nel battaglione, già decimato, il giorno 8 di tutti gli ufficiali esiste[va] un solo capitano": infine, tra gli ufficiali del "Val Maira" si dovettero contare undici feriti,  tre dispersi e due morti , il sottotenente Vittone e il maggiore Pasquali. Tra la truppa, invece, cinquantuno morti, duecentoquarantaquattro feriti e centouno dispersi.

Come nostro uso, crediamo giusto concludere questo breve ricordo con la motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare che fu poi concessa alla memoria di questo valoroso alpino, venuto dalla Sicilia a sacrificare la sua vita su quelle aspre propaggini d'Italia, e che ci pare ne resti quale migliore epitaffio:

In ripetuti combattimenti diede mirabile esempio di calma imperturbabile e di valore. Al suo comandante di gruppo, che gli faceva raccomandazioni di resistere ad ogni costo, rispose fieramente: “Resteremo fino all'ultimo soldato! Viva l’Italia!”. Non curante di sé, si espose arditamente ove maggiore era il pericolo, finché cadde colpito a morte. – Castelgomberto-Monte Fior, 5-8 giugno 1916”.


A cura di Niccolò F.


NOTE
[1] In G.U. n. 94 del 22 aprile 1897.
[2] In quelle date, presso Derna, combatterono il Battaglione "Saluzzo", del 2° Reggimento, e l'"Edolo", del 5°.
[3] In G.U. n. 202 del 24 agosto 1914.
[4] AA. VV., L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), ivi, p. 190.

BIBLIOGRAFIA
- AA. VV., L'Esercito Italiano nella Grande Guerra (1915-1918), Vol. III, Roma, Libreria dello Stato.
- Riassunti Storici dei Corpi e Comandi nella guerra 1915 - 1918 , Roma - Libreria dello Stato.